Oggi vorrei rileggere insieme con voi il racconto di Fedor Dostoevskij “Il sogno di un uomo ridicolo“. In Internet ho trovato una traduzione diversa da quella vecchia Bur, piccolina, che ho in mano in forma di libretto marroncino-grigiastro, della dimensione di metà di una mano – che belle le edizioni Bur, con la loro carta consunta, che da l’idea della transitorietà di ogni cosa, ma torniamo all’essere ridicoli.
Il racconto-sogno inizia così (nell’edizione BUR):
“Io sono un uomo ridicolo. Ora mi chiamano pazzo. Questo sarebbe un avanzamento di grado, se io per loro non rimanessi ridicolo quanto prima. Ma adesso non me la piglio più, adesso tutti mi son cari, perfin quando ridono di me, allora, anzi, mi sono per qualche ragione particolarmente cari. Io stesso riderei con loro – e non già di me,- perché voglio loro bene, se nel guardarli non mi sentissi cosi triste. Sono triste, perché essi non conoscono la verità“.
Continua spiegando di essersi sempre sentito ridicolo, fin da bambino, e di come questo lo amareggiasse: “Poi ho studiato, prima a scuola, poi all’università, e quanto più studiavo, tanto più imparavo che ero ridicolo”.
Vivendo questa esistenziale oppressione, il sentirsi inadeguato, anzi ridicolo, pensa al suicidio: nel racconto si addormenta con la rivoltella in mano. Non si spara preso da compassione per una bimba e la sua mamma malata, e si addormenta chiedendosi come mai, se vuole suicidarsi e quindi tutto gli è indifferente, prova pietà per le persone doloranti. E nel sogno scopre “la verità”.
La scopre sognando di morire e di venir portato da un angelo in un altro pianeta, una Terra-Paradiso come la nostra, ma dove tutti si comportano in modo molto diverso dal nostro solito. Si chiede “c’è, su questa nuova terra, il tormento? Sulla nostra terra noi possiamo amare veramente solo con tormento e solo attraverso il tormento” – desiderio e timore di perdere la persona amata, ad esempio, sono contemporaneamente nel nostro cuore. Arriva in questo Paradiso, bellissimi alberi, erbetta “sfavillante” e fiori odorosi ce lo segnalano.
E infine gli esseri viventi di quella “terra beata”: “Mi vennero incontro…mi fecero corona, mi baciarono. Figli del sole! Come erano belli!… Gli occhi di quegli uomini felici lucevano d’un sereno splendore. I loro volti raggiavano d’intelligenza e di una consapevolezza colma di serenità; quei volti erano lieti; nelle parole e nelle voci risuonava una gioia fanciullesca. Fin dal primo sguardo compresi tutto, tutto! Era quella una terra non macchiata dal peccato originale, ci vivevano uomini che non avevano peccato”, in un paradiso che era tutta la terra. Anche se è un sogno, “l’amore di quegli esseri belli e innocenti è rimasta dentro di me per sempre”.
Li descrive: “Non v’erano fra loro né liti, né gelosia, ed essi non comprendevano neppure quel che ciò significasse”, i bambini erano di tutti, un’unica grande famiglia. Non avevano templi o religione, ma un’”unione quotidiana” col Tutto universale. Cantavano glorificando la natura: un “reciproco innamoramento universale”. Vivevano un’estasi tranquilla, senza la “crudele sensualità che colpisce quasi tutti sulla nostra terra”. Nel sogno, poi “andò a finire che li pervertii tutti”: “appresero a mentire, ad amare la menzogna,… forse cominciò per scherzo… poi iniziò la sensualità, la gelosia… e da li la crudeltà…, la prima violenza, ….si formarono alleanze“, la paura – quindi compare il parlare in termini di “noi” e “loro”, il fare differenze tra il “nostro” dolore e il “loro”. “Ebbero principio i rimbrotti e i rinfacci… conobbero la vergogna e l’idea dell’onore… E ogni alleanza alzò una bandiera… Sorse la lotta per l’individuazione, la personalità, il mio e il tuo… Conobbero il dolore e lo amarono: bramavano il tormento e dicevano ora che la verità si raggiunge solo attraverso il tormento… Divenuti cattivi parlavano di fratellanza, divenuti colpevoli, di giustizia… Non volevano neppur credere di essere stati, in passato, puri e felici. Ridevano di questa precedente beatitudine, e la chiamavano un sogno.
Alla fine si sveglia e, invece di spararsi, scrive, e “va predicando” che il Paradiso è possibile, se coltiviamo la benevolenza, sentiamo e pensiamo in modo diverso e quindi ci comportiamo in modo da essere le persone che ci auguriamo di frequentare, e per questo lo chiamano pazzo e lo deridono.
Un bel sogno da condividere. O invece addirittura rendiamoci ridicoli anche noi, e alleniamoci da subito a vivere nella gratitudine di un Paradiso potenziale? Potenziale, strana qualità, che esiste se ci crediamo. Ma se ce lo immaginiamo, non è già il primo passo?