E' quanto raccontato dal collaboratore di giustizia nell'ambito del processo 'Meta'. Le cosche calabresi, però, rifiutarono. L'ex killer della famiglia Archi ha parlato anche del potere e dei segreti della cosca De Stefano e tirato di nuovo in ballo il governatore Scopelliti
“Attacco allo Stato”. Alla fase stragista degli inizi degli anni Novanta, Cosa Nostra voleva coinvolgere anche la ‘ndrangheta. Nel 1993 pretendeva il suo appoggio, i suoi uomini e le sue risorse. Un appoggio che, per i palermitani, doveva andare oltre la ‘cortesia’ fatta due mesi prima dalle cosche calabresi con l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa nel maxi-processo nato dalle inchieste di Falcone e Borsellino. Ma la ‘ndrangheta non accettò, proseguendo la sua strategia di basso profilo che, a distanza di qualche anno, le fece scalare la classifica mondiale, se così si può definire, delle organizzazioni criminali diventando la mafia più potente e ricca del mondo.
Una strategia che, mercoledì 11 luglio nell’aula bunker a Reggio Calabria, ha cercato di sintetizzare il collaboratore di giustizia Nino Fiume nel corso dell’udienza del processo “Meta”, nato dalla più importante inchiesta che la Procura Distrettuale ha condotto contro il gotha della ‘ndrangheta reggina negli ultimi 15 anni. Un’indagine mastodontica coordinata dal sostituto Giuseppe Lombardo che ha trascinato alla sbarra boss del calibro di Pasquale Condello e Giuseppe De Stefano. Proprio con la sorella di quest’ultimo, per un lungo periodo, è stato fidanzato Nino Fiume, un tempo ex killer della famiglia mafiosa di Archi.
I contatti ‘ndrangheta – Cosa Nostra
“Un magistrato da noi si avvicina con amicizia o lo si delegittima”. Una regola imprescindibile che i palermitani volevano ribaltare catapultando i calabresi in una sorta di guerra allo Stato. E per farlo, nel 1993 furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. Per la prima volta il pentito Fiume ne ha parlato in un dibattimento pubblico: “Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi”. La prima riunione si tenne a Rosarno, all’hotel Vittoria e lì – ha aggiunto il collaboratore – c’erano i siciliani”.
La seconda riunione, di poco successiva, è stata a Parghelia, in provincia di Vibo Valentia: “Era nel periodo in cui a Reggio Calabria era stato ucciso il fratello di Santo Crucitti sulla macchina blindata. Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia. Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c’era anche un traffico di droga da definire. A queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto”.
In sostanza i siciliani videro sfumare anche l’unico spiraglio, rappresentato dal boss Franco Coco Trovato, di un appoggio da parte dei calabresi. La ‘ndrangheta disse no a Cosa Nostra. Il boss Giuseppe De Stefano, figlio del mammasantissima don Paolino, considerò controproducente il ricorso alle stragi. E Fiume ha spiegato in aula il motivo: “Diceva che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie. E ne ho avuto la prova, quando c’è stato il sequestro dei beni dei De Stefano, noi avevamo tutte le carte in mano perché tramite Pino Scaramuzzino (gestore di un locale a Reggio, ndr), abbiamo conosciuto l’avvocato Mario Giglio che era parente del giudice Giglio, che aveva in mano il processo”.
L’omicidio del giudice Scopelliti
Diventare protagonista della strategia stragista assieme agli uomini di Totò Riina sarebbe stato molto diverso rispetto a una semplice ‘cortesia’ come è stato l’omicidio del giudice Scopelliti, nel 1991 a Campo Calabro. “E’ stato un favore ai palermitani perché Scopelliti aveva in mano l’accusa del maxiprocesso in Cassazione”. Nel corso dell’interrogatorio, il pm Lombardo ha intimato più volte a Fiume di non riferire i nomi di chi ha eseguito il delitto eccellente. “Sono stati due calabresi” è stata l’unica rivelazione del pentito dalla cui deposizione si desume che la Procura di Reggio Calabria possa avere riaperto, a distanza di 21 anni, l’inchiesta sulla ‘cortesia’ fatta dalla ‘ndrangheta a Cosa Nostra.
Voto per voto
L’udienza del processo “Meta” è solo la prima scossa di un terremoto che si annuncia devastante. Le segreterie dei partiti da ieri pomeriggio tremano al solo pensieri di cosa il collaboratore di giustizia ha già fatto mettere a verbale dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo. “Presidente, posso contare voto per voto, elezione per elezione. I politici venivano a bussare alla nostra porta – ha raccontato Nino Fiume – C’era gente che valeva venti o trenta voti e se ne ritrovava migliaia”. Anche su questo fronte, il pm ha invitato Fiume a non fare nomi. Uno, però, lo ha fatto ed è quello dell’attuale governatore della Calabria che, nei mesi scorsi, ha più volte sminuito la sua conoscenza con l’ex killer della cosca De Stefano, circoscrivendola alle sue frequentazioni di molti anni fa in una discoteca reggina. “Io stimavo alcune persone della politica tra cui Peppe Scopelliti, anche se lui ora certe cose non le ricorda”. E ha aggiunto: “Chi si è rivolto a me sapeva che ero intraneo alla cosca De Stefano”. Fiume è andato anche oltre, ricordando il messaggio che il fratello del boss aveva mandato al politico reggino: “Digli di assumere mia moglie, altrimenti gli metto una bomba alla Regione”.
Ai Parioli i segreti della cosca De Stefano
Il pentito, inoltre, ha parlato del potere dei De Stefano, del grande potere della massoneria a Reggio e di politici. “Reggio ha vissuto sempre di massoneria – ha affermato Nino Fiume – Mico Libri (un altro boss defunto di Reggio, ndr), quando parlava dei massoni, li chiamava i ‘nobili’. ‘Non li tocchiamo, diceva, sennò ci rovinano’. Il problema sono le logge deviate. E’ inutile cercare le liste dei massoni nelle prefetture”.
L’impero degli ‘arcoti’ è impossibile da quantificare. I De Stefano, infatti, sono stati i primi a investire in Francia, sulla Costa Azzurra, e in Svizzera. Segreti inconfessabili, parte dei quali sono custoditi a Roma, “in uno studio ai Parioli, vicino alla sede della Zecca di Stato – ha svelato il pentito – Una volta ci andai con Carmine De Stefano. Era una sorta di studio notarile e il dottore che ci accolse aveva i guanti bianchi. Carmine De Stefano aveva il timore che qualcuno scoprisse la sede di quello studio legale. Io non entrai ma mi accorsi di scritte in russo o in polacco, non ricordo bene. Ricordo, invece, che un giorno l’avvocato Tommasini mi disse che Peppe De Stefano faceva società con persone e in luoghi inaccessibili finanche al Presidente della Repubblica“.