Parla Antonino Valguarnera, uno dei dieci imputati che aspettano oggi il verdetto di Cassazione. Militare a Sarajevo, premiato da Ciampi, candidato Pd, nel 2001 sfilò con il blocco nero. "L'accusa di devastazione e saccheggio è assurda, ma se condannato mi presenterò spontaneamente in carcere"
Ha fatto il militare a Sarajevo, è stato premiato per i suoi servigi sotto le armi, ha pranzato con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Poi si è laureato in Scienze Politiche, si è impegnato nel mondo dell’associazionismo e ha iniziato a lavorare nella comunicazione. Infine ha anche tentato d’impegnarsi nella politica cittadina, candidandosi con il Pd alle ultime amministrative a Palermo. Letto così il curriculum di Antonino Valguarnera non fa una piega: ineccepibile.
Solo che adesso la vita del giovane palermitano è a un giro di boa. Una settimana dopo la sentenza che ha condannato 25 poliziotti per la sanguinosa irruzione alla scuola Diaz, la corte di Cassazione dovrà esprimersi sul suo caso: se dovesse confermare la condanna di secondo grado per Valguarnera si aprirebbero le porte del carcere. Dura, anzi durissima la condanna d’appello: otto anni per devastazione e saccheggio, reati commessi durante il G8 di Genova nel 2001. Valguarnera è considerato infatti una tuta nera, uno dei black bloc che nell’inferno di Genova avrebbe messo a ferro e fuoco la città. Una vicenda complessa quella del giovane palermitano che dopo due gradi di giudizio attende di sapere dalla suprema quale sarà il suo destino.
Tra le accuse, confermate dalla sentenza d’appello, il furto di una Vespa per muoversi rapidamente nel teatro degli scontri, un calcio al ginocchio a un ispettore di polizia per sottrarsi all’arresto, e la partecipazione costante al corteo del blocco nero responsabile di una lunga serie di danneggiamenti. Fatti documentati anche da riprese video. Come per altri imputati del suo processo, però, il nodo non sta nei fatti, ma nel reato contestato e nella pesantezza delle pene che prevede: da otto a quindici anni di carcere.
Insieme a lui aspettano il verdetto degli ermellini altre nove persone. “Dei miei coimputati non conoscevo nessuno a parte il mio conterraneo Carlo Arculeo, con cui sono stato arrestato, ma non voglio entrare nel merito della situazione processuale – specifica Valguarnera –. Semmai mi faccio delle domande: mi chiedo perché in undici anni nessuna forza politica abbia mai chiesto una commissione d’inchiesta sui fatti di Genova; mi chiedo perché in Italia non è stato mai introdotto il reato di tortura. Dopo tutto quello che è emerso, in undici anni di vicende giudiziarie non ho mai ricevuto una telefonata dai da tutti quelli che si considerano i leader del movimento No Global”.
Il giorno che cambiò la vita di Valguarnera è venerdì 20 luglio 2001, quando viene fermato dalle forze dell’ordine mentre era in sella ad una moto insieme al concittadino Carlo Arculeo, anche lui condannato a otto anni in appello: secondo l’accusa avrebbero creato disordini nell’inferno genovese, lanciando molotov sui poliziotti. Solo che di quelle molotov al processo arrivò soltanto una sbiadita fotografia di una bottiglia di plastica: le molotov vere, secondo la testimonianza degli artificieri, erano state fatte esplodere per sicurezza. “Ero andato a Genova con le migliori intenzioni: avevo 20 anni e non facevo parte di nessun partito. – racconta – Volevo essere semplicemente una voce in più che manifestava pacificamente. Ricordò che il giovedì fu una giornata fantastica. Il giorno dopo però capimmo subito che l’aria che si respirava era diversa, per strada stava cominciando ad andare in scena l’inferno. Siamo stati fermati nel primo pomeriggio mentre cercavamo di allontanarci dagli scontri, anche se tutta la città era nel caos. Siamo stati condotti in varie caserme fino a quando non ci hanno portato a Bolzaneto, dove siamo rimasti parecchie ore”.
La caserma di Bolzaneto è uno dei tanti teatri dell’orrore di quella sciagurata pagina di storia italiana: i manifestanti fermati vennero torturati a più riprese da appartenenti alle forze dell’ordine rimasti in gran parte senza identità. “Ci hanno fatto rimanere 20 ore in piedi senza bere e mangiare, ci bruciavano le dita. Poi ci portarono nel carcere di Alessandria dove fortunatamente incontrammo un sacerdote che si mise in contatto con le nostre famiglie: ora non ricordo più, ma credo fosse don Gallo”. Dal carcere di Alessandria i giovani siciliani escono lunedì 22 aprile, senza che neanche gli vengano restituiti gli effetti personali. “Mi ricordo una collana di mia madre che avevo al collo, mi venne sequestrata all’entrata in carcere, e poi un poliziotto che diceva: questa è perfetta per mia moglie”.
Dopo i fatti di Genova la vita dei due giovani riprende a scorrere normalmente. Almeno apparentemente. Valguarnera aveva chiesto di arruolarsi nell’esercito e viene mandato nella ex Jugoslavia: a Sarajevo viene premiato e selezionato per partecipare ad un pranzo con l’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Poi torna a Palermo dove si scrive a Scienze Politiche. Solo che nel frattempo viene rinviato a giudizio. “Finisco il militare e inizio subito a lavorare per pagarmi gli avvocati. Il rinvio a giudizio mi viene notificato alle due e mezza di notte dalla Digos che piomba in casa mia e rimane quasi sorpresa: credevano di perquisire il covo di un black bloc e invece hanno trovato una normalissima famiglia”.
E una vita normale Valguarnera la conduce per tutti gli undici anni successivi al quel dannato 20 luglio 2001. Quel luglio in cui trecento mila giovani erano andati a contestare un sistema economico che adesso mostra tutte le sue debolezze. Per chiedere la cancellazione delle condanne d’appello di Valguarnera e degli altri imputati, si è attivata nel frattempo la campagna “10 X 100 Genova non è finita” che ha raccolto oltre 25 mila firme in meno di un mese- tra cui anche quelle di Moni Ovadia, Curzio Maltese, Margherita Hack – che saranno depositate domattina in tribunale.
“Di solito scandiamo la nostra vita con la data degli esami, delle ferie, delle vacanze: – ammette Valguarnera con amarezza – io in questo momento mi sento sospeso. Non posso che aspettare e rispettare la sentenza della cassazione. Ho deciso che in caso di condanna mi costituirò autonomamente in carcere. La cosa che più mi pesa però non è la possibile condanna, ma forse l’assurdo capo d’imputazione: io non ho mai devastato e saccheggiato Genova”.