Gabbie, carceri, costrizioni che limitano l’agire e lo umiliano nell’angustia di una immobilità angosciosa, che ti fa implodere di pazzia, col batticuore a mille, mentre le pareti sporche di sudici sedimenti decennali assumono le sembianze di spietate mostruosità contro cui cozzare con la testa, per cercare di massacrarla, e per farla finita. Ma ci vuole un coraggio non banale, e in sua assenza si illanguidisce insieme ad altri ingabbiati a tuo stretto contatto, nel gelo e nell’afrore, nella condivisione di una disperazione che si suicida con sbeffeggiante lentezza nell’inedia.
Ecco, è vero: basta non commettere sbagli nella vita, agire con rettitudine o senza disonestà, per non finirci dentro. Ma percepisco un po’ di miopia nel non chiedersi, fra i primi impulsi del cervello: e se accadesse anche a me!? E se accadesse per via di uno sbaglio di giudizio!? E se accadesse a mio figlio per una stronzata giovanile!? Mio figlio, che conosco così bene, e che so non essere un delinquente senza scampo? (però, per amor di precisione, quanti poveracci lo diventano perché nascono nel posto sbagliato a condizioni sbagliate?)
Sicché il cenno da me fatto nel secondultimo post di due settimane fa sulle pessime condizioni delle carceri italiane e l’uso del nome di un politico sui generis (Marco Pannella) hanno alimentato qualche turbolenza facendo sorvolare sugli obiettivi di una riflessione umana e pietosa di comprensione e di buona volontà (dico queste cose da agnostico laico quale penso di essere). Esistono altre gabbie, è vero: quelle metaforiche che costringono l’esistenza in rituali un po’ squalificanti, annullando le opportunità del libero arbitrio in una tabula rasa di piattume filisteo, subìto a volte senza rendersene conto (mi cito, dritto dritto dalla ribalta di Sanremo: “la felicità non è impossibile, la stupidità la rende facile”), altre non sapendo come far riemergere il cervello da quella spianata.
E ce n’è un’altra ancora, di gabbia, una in particolare, in tutto diversa, malvagia, per nulla metaforica, che mi ha sempre inquietato costringendomi a pensieri analoghi a quelli con cui mi sono introdotto a voi poco sopra: ha nome “Sindrome da locked-in”, e il film “Lo sacafandro e la farfalla” ne ha dato ampia testimonianza. E’ un ictus del cervello che colpisce il tronco-encefalo e che provoca la paralisi completa di tutti (dico: tutti) i muscoli del corpo. Il paziente che rimane in vita è sveglio: in alcuni casi, si suppone, incosciente, in altri cosciente, in grado unicamente di muovere la testa e le palpebre e/ma in grado di rendersi conto perfettamente del suo corpo e della sua conformazione. Per cui i soli mezzi di comunicazione possibilie avvengono attraverso codici instaurati con il movimento delle palpebre o della testa (ora, per fortuna, internet sta compiendo il miracolo di permettere l’interfaccia con il mondo, perché un software dedicato intercetta i movimenti del capo traducendoli in lettere che compongono parole e frasi)
E’ il dramma di una ingiustizia patita senza colpe, che prende vita (sardonico ossimoro) da un accidente, e che ti fa ritrovare perso in una condizione straziante, dove nulla puoi se non soffrire la pena di un vano sforzo di liberazione da catene che serrano corpo e animo in un soffocamento mortifero.
Un modo beffardo di perdere la preziosissima libertà…
Postilla 1: Wikipedia dice questo: “I pazienti con la sindrome locked-in riferiscono di sentirsi nella maggior parte piuttosto tranquilli, e alcuni riferiscono di essere un po’ tristi. Questo è il contrario del panico e del terrore che si potrebbe supporre pensando a persone coscienti che non possono muoversi, parlare e controllare l’ambiente che li circonda. Questi dati indicherebbero che le emozioni sono dovute ad interpretazioni delle sensazioni corporee. Dal momento che le persone che si trovano nello stato locked-in non hanno un grande senso della corporeità (propriocezione), il cervello non riceve dei feedback indicanti il pericolo.” La spiegazione rasserena abbastanza, forse, in parte. Ma… come dire?… conviene allora che perdano anche la memoria e la contezza di tutto il passato vissuto. Sarà così? In ogni caso, a tali condizioni, mi sa che potrebbe esser meglio la morte.
Postilla 2 (en passant): gli esponenti del Partito Radicale si sono anche interessati di questi casi, e nel 2009, un esempio fra altri, hanno inserito in una loro lista Severino Mingroni, divenuto affetto da tale sindrome a seguito di una trombosi. Farsi un giro nelle pagine di Severino Mingroni e Luca Coscioni, scoprire chi sono (io non lo sapevo) e leggere le loro bellissime parole, può regalare importanti consapevolezze.
“Mi sentite?
Sto gridando da un pezzo
e no, non mi sentite!
Mi sentite?
Sto muovendo una palpebra
e non lo vedete…”
Vivo
testo: Cristiano Godano
musica: Cristiano Godano, Luca Bergia, Riccardo Tesio
c) 2010, Ala Bianca Edizioni Musicali
dall’album ‘Ricoveri virtuali e sexy solitudini’ – Sony Music Columbia