Senza alcuna intenzione di provocare i “benaltristi” che s’inalberano ogniqualvolta si parla di Cuba in termini non entusiasticamente apologetici, mi soffermo su un’altra piccola ma significativa notizia che proviene dall’isola del dott. Castro. Si tratta, tanto per cambiare, d’una vicenda di prigionieri. E di prigionieri a loro modo decisamente politici. Amnesty, è vero, non li ha classificati (né, presumibilmente, mai li classificherà) tra i prigionieri di coscienza. Ed anzi – volendo prender per buona la dottrina cattolica in materia – non possedendo un’anima, di coscienza non ne hanno alcuna. Tutti sono stati però – per la scelta congiunta di due governi – condannati all’ergastolo, da scontarsi in una Cayenna d’oltremare, senza uno straccio di processo e senza aver commesso non dico un reato, ma foss’anche una semplice e venialissima infrazione. Mi riferisco ai 146 animali selvaggi – elefanti, rinoceronti, gazzelle, leoni etc. – che la Repubblica di Namibia ha per misteriosa ragioni deciso di regalare a Cuba. E che Cuba,altrettanto misteriosamente, ha, con entusiasmo accettato, destinando le povere bestie allo zoo – o, per meglio dire, al campo di concentramento – che si estende ai margini del Parque Lenin, alla periferia dell’Avana.

Ora, chiunque conosce un po’ di Storia, ben sa come tra Namibia e Cuba esista una relazione da molti (e certo dalle due parti interessate) del tutto legittimamente considerata gloriosa. Fu qui, tra la Namibia e l’Angola, che, nella seconda metà degli anni 80, si consumarono le fasi finali d’uno scontro militare (da un lato gli angolani del MPLA ed i guerriglieri della SWAPO appoggiati dalle truppe inviate da Fidel, dall’altro il poderoso esercito del Sudafrica e l’UNITA del feroce Jonas Savimbi) i cui esiti in ultima analisi molto contribuirono a liberare il modo dalla vergogna del regime razzista di Johannesburg.  Tutto bello. Tutto da celebrare. Meno bello (e del tutto incomprensibile) è invece il fatto che, tra i molti possibili modi per cementare quest’amicizia nata nel ferro e nel fuoco d’una guerra giusta – targhe commemorative, convegni, interscambi culturali, parate militari, fuochi artificiali, pacche sulle spalle – la Namibia e Cuba ne abbiano infine scelto una che implica l’insensato sacrificio di animali sottratti al proprio habitat naturale e costretti a ripercorrere la tragica rotta degli schiavi neri  spediti in catene via nave a fertilizzare le terre del Nuovo Mondo. Ed il tutto al solo scopo di riabilitare un’istituzione, quella tristissima degli zoo, ormai da tempo considerata, in tutte le latitudini, obsoleta e crudele.

Fin qui donatori e donanti si sono limitati a rispondere alle critiche con burocratica insipienza, sottolineando come tutte le norme internazionali sul commercio delle specie in pericolo d’estinzione siano state rigorosamente rispettate; e come tutte le strutture siano state approntate, dal lato cubano, per un opportuna quarantena degli animali. Il che non lascia spazio che a ipotesi fantasiose, o, per meglio dire, a più o meno facili ironie, prepotentemente alimentate dal biblico nome – operazione Arca di Noè – che le autorità dei due paesi hanno voluto assegnare a questo inutile e nient’affatto biblico esodo. In molte delle sue riflessioni – ha sottolineato più d’uno – Fidel non ha fatto mistero del suo desiderio di salvare il mondo, in marcia verso l’abisso,  da quella che considera una più che probabile ed imminente estinzione. E ha di conseguenza deciso di organizzare, con la collaborazione della Namibia, una sua propria arca, l’Arca di Fidel, per salvare le fonti della vita dall’incombente flagello.

Soltanto una battuta ovviamente. Come quella – presa però molto sul serio, ieri, dall’inviato di “La Repubblica” – secondo la quale Raúl Castro, in visita a Mosca, si sarebbe informato sulle tecniche di imbalsamazione del corpo di Lenin, con l’ovvia intenzione di riservare al fratello maggiore un analogo destino – o un’analoga, fittizia e macabra immortalità – dopo l’inevitabile dipartita.

Le più frequenti ed appropriate battute sul caso riguardano tuttavia, non il presente, ma il passato. E, a modo loro, preannunciano un orripilante futuro. Alla mente di quasi tutti, appresa la notizia dell’esilio forzato delle povere fiere, è inevitabilmente tornata una delle più raccontate tra le molte barzellette che, lungo gli anni ’90, caduto l’impero sovietico, hanno accompagnato travagli del cosiddetto “periodo speciale”. Una fulminante storiella che ha per teatro proprio lo zoo del Parque Lenin, e che rammenta l’evoluzione (o involuzione) dei cartelli apposti a gabbie e recinti. All’inizio della rivoluzione: “Vietato dare da mangiare agli animali”. Nel bel mezzo della rivoluzione: “Vietato mangiare il cibo degli animali”. Durante il “periodo special”: “Vietato mangiarsi gli animali”.

Oggi ai cubani le cose vanno decisamente non bene, ma molto meglio d’allora. E nessuno racconta più barzellette sugli animali dello zoo mangiati dalla gente. Non sarebbe molto meglio, a questo punto, chiudere definitivamente lo zoo del Parque Lenin – anche lui imbalsamato come il grande rivoluzionario che gli ha dato il nome – anziché riempirlo con le vittime d’una donazione bestiale?

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