Ieri come oggi i collaboratori di giustizia parlano di una “cortesia” della 'ndrangheta a Cosa nostra. Il magistrato fu ucciso perché avrebbe dovuto rappresentare, in Cassazione, l’accusa nel maxi processo a Cosa nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Riaperta l’inchiesta sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, consumato nel 1991 a Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria. Il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo ha in mano la chiave che potrebbe svelare scenari inquietanti e riscrivere le fasi di quella che è passata alla storia come la strategia stragista di Totò Riina. Quella chiave è il collaboratore di giustizia Nino Fiume, ex cognato del boss Giuseppe De Stefano e killer della famiglia mafiosa di Archi. È lui che ha fatto mettere a verbale i nomi di mandanti ed esecutori del delitto Scopelliti, ucciso perché avrebbe dovuto rappresentare, in Cassazione, l’accusa nel maxi processo a Cosa nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ci sono cose che non risultano agli atti di nessun tribunale. Sguardi e mezze parole che non possono essere descritti e che dicono più di cento faldoni. Come quelli del boss Nino Imerti, condelliano di ferro, cognato del “Supremo”, e ancora padrone incontrastato del comprensorio di Villa San Giovanni, locale di ‘ndrangheta in cui ha trovato la morte il giudice Scopelliti. Conosciuto con il nome di “Nano Feroce”, già nel 1993, anno in cui è stato arrestato dopo un lungo periodo di latitanza, le sue risposte ai magistrati Alberto Cisterna ed Enzo Macrì lasciavano intendere che l’omicidio del giudice calabrese si intreccia con gli interessi dei palermitani ma, soprattutto, con quelli di pezzi delle istituzioni in contatto con la mafia siciliana. Il sospetto, per la Procura di Reggio, è che l’agguato di Campo Calabro sarebbe stato il primo capitolo della “trattativa”, (su cui la Procura di Palerno ha chiuso le indagini il 14 giugno scorso, ndr) durata per altri due anni, tra Cosa nostra e lo Stato.
Perché è stato ammazzato? “Dottore, in quel momento, ero latitante. Mi sono chiesto chi è stato. Ho domandato agli altri che, invece, volevano saperlo da me” è stata l’unica risposta di Imerti prima di essere rinchiuso al 41 bis. Per l’attentato a Scopelliti si sono celebrati processi poi finiti in una bolla di sapone. Presunti esecutori e presunti mandanti, tutti a casa. Imputati arrestati e, a distanza di anni, assolti per il primo “attacco allo Stato” che ha raggiunto il culmine con le stragi di Capaci e via D’Amelio per poi proseguire con le bombe di Milano, Firenze e Roma.
Ieri come oggi, i collaboratori di giustizia parlano di una “cortesia” della ‘ndrangheta a Cosa nostra. Un favore del quale il pentito Nino Fiume sta spiegando i dettagli al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo. Durante la detenzione, il collaboratore ha stilato memoriali composti da centinaia di pagine. Volumi scritti a penna prima di essere dimenticati nell’archivio della Procura. “Riesumate” dallo stesso pm che ha in mano l’inchiesta “Breakfast” sui rapporti tra la ‘ndrangheta e la Lega Nord, quelle pagine ricostruiscono la seconda guerra di mafia in riva allo Stretto che ha segnato l’ascesa del boss Peppe De Stefano, degno figlio di don Paolino. Ma va anche oltre. Spiega le dinamiche interne della cosca di Archi, di quei mafiosi “dalle scarpe lucide” capaci di trattare alla pari con Riina e i corleonesi. Il memoriale, adesso, è stato secretato in attesa che gli inquirenti riscontrino le dichiarazioni di Fiume il quale ha consegnato al pm Lombardo anche una serie di documenti scottanti. Il racconto del pentito sta consentendo alla Dda di rispolverare un quadro di cui, per 21 anni, non si è riusciti a percepire i contorni. Quel quadro, il pentito lo conosce bene, lo ha visto dipingere, così come è stato testimone oculare degli incontri, tre in tutto, tra i palermitani e i calabresi. Peppe De Stefano non ha mai abbandonato il basso profilo. “Un magistrato da noi si avvicina con amicizia o lo si delegittima” andava ripetendo agli uomini del suo clan, una sorta di regola in nome della quale ha declinato l’invito dei siciliani incontrati una volta a Milano e due in Calabria, a Rosarno presso l’hotel “Vittoria” e a Parghelia, all’interno del residence “Blue Paradise”. Il no dei reggini fu netto ma allo stesso tempo accompagnato da una pacca sulla spalla come per dire: “Andate avanti”.
Appoggiare incondizionatamente la strategia stragista degli uomini di Riina sarebbe stato un passo troppo lungo e rischioso rispetto al solo agguato al giudice Scopelliti a cui parteciparono “due calabresi” vicini ai De Stefano. Le dichiarazioni di Fiume rischiano, adesso, di travolgere un mondo in cui la ‘ndrangheta non è la sola protagonista. Reggio trema per quel pentito che, in molti, hanno tentato di delegittimare dall’inizio della sua collaborazione. Vacillano le fondamenta un sistema che è compromesso in tutte le sue componenti: ‘ndrangheta, massoneria, politica, servizi deviati e interi pezzi delle istituzioni. Le armi dei De Stefano potrebbero non essere quelle che hanno macchiato la Calabria. Piuttosto quelle che hanno insanguinato l’Italia. Stragi e omicidi di Stato i cui segreti, in parte, sono custoditi in riva allo Stretto.