L'uomo simbolo della lotta per le libertà civili condannato con altri 19 attivisti e reporter. Grazie alla legge "antiterrorismo" che soffoca ogni manifestazione di dissenso. Ma il premier Zenawi è un prezioso alleato degli Usa contro il fondamentalismo islamico
“Prima o poi la libertà travolgerà l’Etiopia, inevitabilmente”. Lo scriveva il 9 settembre 2011, cinque giorni prima di varcare per l’ennesima volta la soglia del carcere di Kaliti, la sua seconda casa. Criticava, in quell’articolo, la facilità con cui il governo arrestava la gente in nome della lotta al terrorismo: in cella era finito anche il suo amico Debebe Eshetu, popolare attore da sempre aspro critico del premier Meles Zenawi, con l’accusa di aver “fatto ricorso alla violenza per rovesciare il governo”. Il 14 settembre sarebbe toccato a lui: Eskinder Nega, giornalista e blogger, classe 1968, membro dello Unity for Democracy and Justice party, veniva arrestato. Venerdì, ad Addis Abeba, è arrivata la sentenza che lo ha condannato a 18 anni per cospirazione. Con lui, altri 19 tra reporter e attivisti: dovranno scontare pene che vanno dagli otto anni all’ergastolo.
Quando venerdì è entrato nell’aula per ascoltare la sentenza, la prima cosa che ha fatto è stato cercare gli occhi di sua moglie nel mare di politici, diplomatici e parenti dei detenuti che la affollavano. Serkalem era lì, il loro piccolo di 7 anni in braccio. Eskinder ha alzato la mano per salutarli e il tempo si è fermato. Il primo giornale, Ethiopis, fondato nel 1993 e una vita trascorsa a far la spola tra la libertà e la prigione: il governo di Zenawi lo ha arrestato almeno sette volte, e in più occasioni gli ha fatto intendere che l’unica speranza di salvezza sarebbe stata l’esilio, destino di centinaia di colleghi. Al suo fianco sempre lei, Serkalem Fasil, giornalista, bella e inaffondabile.
Forte al punto da non abbandonare mai Addis Abeba e seguire il marito nella folle avventura di sfidare ancora una volta Zenawi, raccontando le proteste scoppiate dopo le elezioni del 2005 e culminate con una repressione senza precedenti: 200 i morti, 30mila gli arresti. Alto tradimento fu l’accusa che condusse entrambi nel penitenziario di Kaliti, nella capitale. Diciassette mesi tra le sbarre in cui Serkalem aveva dato alla luce il loro bambino. Oggi il piccolo ha sette anni. Da settembre suo padre può vederlo solo a Kaliti, sua madre ce lo porta spesso per farli incontrare. La speranza di vivere insieme fuori, liberi, è sfumata venerdì.
“La corte ha considerato le accuse e ha comminato le giuste pene”, ha concluso il giudice Endeshaw Adane leggendo la sentenza con cui ha inflitto tra le altre condanne 15 anni a 5 giornalisti già in esilio e tre ergastoli, frutto dell’Anti-Terrorism Proclamation: la legge, approvata il 7 luglio 2009, priva gli etiopi della libertà di dissenso includendo tra gli “atti di terrorismo” condotte come il “danneggiamento della pubblica proprietà e l’interruzione di pubblico servizio”, reati punibili con pene che vanno dai 15 anni di carcere alla condanna a morte. Una libertà cancellata diventata la ragione di vita di Nega. Prima con i giornali distribuiti in strada, poi dal 2006 (quando il governo gli revoca la licenza di stampa) sul web. Nel febbraio 2011 era tornato in galera per aver “incitato gli etiopi a dare vita a proteste simili a quelle che in Tunisia e in Egitto hanno portato alla Primavera araba“.
Ultimo, l’articolo in difesa dell’amico Eshetu su www.abugidainfo.com, prima dell’arresto motivato con l’accusa di far parte di Ginbot 7, organizzazione considerata terroristica dal governo. Un’attività incessante, premiata a maggio ai massimi livelli internazionali con il 2012 Pen/Barbara Goldsmith Freedom to Write Award. Al Literary Gala organizzato per suo marito al Museo di Storia Naturale di New York è andata Serkalem: a New York, nel cuore di quell’America che nel governo Zenawi vede un prezioso alleato nella lotta contro il fondamentalismo. La strada verso la libertà di Nega, i cui legali hanno presentato ricorso contro la sentenza, e dell’intera Etiopia resta lunghissima. Un presagio e un segno di accettazione del proprio destino le parole della sua compagna di vita dinanzi all’assemblea del Pen: “Per creare l’Etiopia che vogliamo, c’è bisogno che qualcuno si sacrifichi”.
di Marco Quarantelli