Samuele Lo Vato del clan Forastefano di Cassano Ionio ha rivelato ai pm quanto accadeva nella casa di cura Villa Verde di Mendicino. E' uno dei tanti mafiosi usciti dal 41 bis che, con la complicità di alcuni sanitari, trovavano modo per continuare a dirigere da lì gli affari dei clan
I favori erano di ogni tipo: dai permessi d’uscita dalla clinica a quelli di visita (a dispetto del regime di arresti domiciliari), dalla fornitura di telefoni cellulari al reperimento di documenti di pazienti incensurati a cui intestare le schede sim, fino alle certificazioni false di patologie neuropsichiatriche inesistenti, finalizzate alla scarcerazione e all’ottenimento dei benefici di legge. Le prestazioni in cambio di questi favori erano altrettanto variegate: non si limitavano alla sola consegna di denaro, ma si estendevano a regali di ogni genere. Prosciutti e forme di parmigiano, rolex d’oro, profumi, liquori, automobili, scooter, divani e perfino lenzuola, materassi e condizionatori d’aria, “che servivano ad Ambrosio che in quel periodo stava allestendo un bed and breakfast in Cosenza”.
“Ambrosio” è il dott. Luigi Arturo Ambrosio, primario della clinica Villa Verde di Mendicino, nel cosentino, e chi lo cita, dinanzi ai magistrati, è Samuele Lo Vato, esponente di spicco del clan Forastefano di Cassano Ionio, che nella clinica scontava la sua detenzione. Uno dei tanti mafiosi usciti dal 41 bis e giunti a Villa Verde grazie a perizie compiacenti e che, proprio nella complicità di alcuni sanitari della casa di cura, trovavano il mezzo sicuro per tornare in libertà o continuare a dirigere gli affari dei clan. Sono le sue parole, con quelle di altri collaboratori, ad aver permesso al Ros dei carabinieri di Catanzaro di arrestare sette persone, di cui cinque medici di Cosenza e Reggio Calabria, già indagati dallo scorso anno e ora accusati di una sfilza di reati, per gli inquirenti commessi in favore dei boss e, dunque, della ’ndrangheta. C’è appunto il primario di Villa Verde, Ambrosio, e due suoi collaboratori, lo psicologo Franco Ruffolo e Pasquale Barca. C’è Massimiliano Cardamone, autore di perizie favorevoli, quale Ctu del Tribunale di Catanzaro, nei confronti dei capi ’ndrangheta del locale di Sibari e di Isola capo Rizzuto, Antonio Forastefano e Nicola Arena. E c’è perfino il notissimo primario del policlinico reggino “Madonna della Consolazione” (in stretti rapporti di amicizia con “Arturione” Ambrosio), Gabriele Quattrone, che dalla moglie di Forastefano, Caterina Rizzo, anche lei finita in manette, avrebbe ricevuto 5000 euro come acconto dei 20.000 da lui chiesti per certificare la falsa patologia del boss, effettivamente trasferito, dopo quella perizia, dal carcere duro di Parma a una clinica di Roma.
Il sistema ruotava attorno a Villa Verde, dove un intero piano, il secondo, era riservato a “quelli che contano”, a quei detenuti che addirittura “avevano voce in capitolo sulle persone che potevano accedervi” e che, dietro adeguate ricompense al primario, non pagavano neppure la retta. Lì il trattamento era da villeggiatura: “Si poteva avere la tv in stanza, non bisognava andare a prendere la terapia, non si aveva l’obbligo di mangiare in refettorio con gli altri malati e nessuno entrava in stanza”, dice Lo Vato. E’ il pentito a raccontare agli inquirenti come funzionava il sistema, da lui inizialmente appreso dall’affiliato alle cosche vibonesi Andrea Mantella, che a Villa Verde era ormai una vera e propria autorità. Racconta di avere indicato alla moglie di Forastefano l’iter da seguire per il marito. Parla dell’ingordigia dei medici della clinica nel chiedere ai detenuti le più svariate regalie, per sé e i familiari, in cambio di agevolazioni dipendenti dal “grado di disponibilità che si mostrava alle loro richieste”. Richieste che, peraltro, non riguardavano solo i mafiosi, come dimostrerebbe un carico di piante da 3000 euro, regalate ad Ambrosio da un vivaista, perché certificasse una depressione alla moglie, utile ai fini della pensione di invalidità.
Lo Vato spiega ancora come fosse “l’avvocato o il paziente a indicare cosa doveva essere scritto sul referto” per poter ottenere i benefici normativi. Riferisce di medici “avvicinabili” e non avvicinabili e di un suo falso tentativo di suicidio, attestato da Barca e da un infermiere descrivendo addirittura la rianimazione operata per salvarlo. Parla anche di un avvocato – “omissis” nelle carte – utile alla sua causa perché “aveva la sorella in magistratura e agganci in Cassazione“. Tutte dichiarazioni riscontrate ampiamente, per i carabinieri. Come nel caso della perizia, stilata dal consulente tecnico d’ufficio Cardamone su Nicola Arena, attestante un “decadimento cognitivo” del boss. Solo un anno prima, intervistato da “Matrix” su una vicenda di confisca beni, Arena era apparso lucido e logico. “In pochi mesi non è possibile un decadimento tale da giustificare un declino cognitivo”, scrive il contro-perito Giulio Di Mizio. Il video è stato acquisito agli atti e, per gli inquirenti, è anch’esso una prova inconfutabile delle loro accuse.