Ultimo numero per la rivista dell'organizzazione umanitaria. Il fondatore: "Un progetto che meritava di essere sostenuto". Le 20mila copie dichiarate in edicola non bilanciano l'aumento dei costi di spedizione e il crollo delle donazioni dovuto alla crisi
Si spegne nel totale silenzio la voce di Emergency. Mercoledì prossimo uscirà l’ultimo numero di “E”, il mensile dell’organizzazione umanitaria che nel 2011 aveva tentato di portare nelle edicole i grandi temi della cultura dei diritti e della pace, i reportage dai teatri di guerra e dagli ospedali. Chiude anche l’edizione online che era poi l’evoluzione di PeaceReporter, il canale di informazione per il web quasi 10 anni fa. Venti i giornalisti che si troveranno per strada. “Una scelta dolorosa ma necessaria – spiega Gino Strada – perché ci siamo trovati a scegliere se tenere aperte queste attività di informazione e gli ospedali. E abbiamo fatto una scelta anche se ci colpisce al cuore”.
L’intero budget per l’edizione 2012 era di 600mila euro. Non molto per la verità, soprattutto a fronte del via libera all’ennesimo finanziamento pubblico da parte del Senato a organi di partito e giornali “amici” per 120 milioni di euro, per di più aumentati rispetto ai 47 del precedente decreto. “Non abbiamo chiesto soccorso a nessuno, non è nella nostra filosofia. Ma non posso dire che siamo stati aiutati, visto che solo i costi di spedizione dei nostri materiali informativi, come per tutto il settore, sono aumentati del 500% nel giro di pochi mesi”, dice Strada riferendosi ai contributi che dal 2010 sono stati ritoccati più volte.
“Certo, il nostro progetto forse meritava di essere sostenuto, così come i nostri ospedali. Ma si preferisce fare la spending review tagliando sanità, istruzione e quant’altro per poi comprare allegramente armi da guerra e lanciarsi in missioni che non hanno nulla a che fare con la pace, ma obbediscono a logiche lontane dagli italiani, come in Afghanistan. Essere lì ci costa un miliardo all’anno e ci siamo da dieci anni, per quali interessi e logiche è fin troppo chiaro e cioè per servilismo nei confronti degli Stati Uniti. Non c’è altra ragione plausibile e ora lo ammettono pure i generali, siamo lì a bombardare, stiamo partecipando a un crimine di guerra finalizzato a mettere le mani sul petrolio, in sprezzo alle Nazioni Unite. Con quali conseguenze per la popolazione, da domani, sarà più difficile raccontarlo agli italiani”.
Il riferimento è all’ultimo articolo sulla missione italiana a Herat che ha confermato l’impiego di cacciabombardieri e di bombe e a seguito del quale il governo è stato chiamato a riferire in aula proprio ieri. Tra edicole e abbonamenti “E” vendeva all’incirca ventimila copie. “Non pochissime, secondo me – sostiene il direttore Gianni Mura – se teniamo conto della crisi. Molti hanno rinunciato al quotidiano e il taglio si ripercuote con maggior forza su settimanali e mensili. La crisi pesa anche sull’editore, cioè su Emergency, che non è più disponibile ad accollarsi il passivo (non esorbitante) della gestione”.
Il macigno al progetto è arrivato con l’ennesima flessione delle donazioni che nel 2011 ha colpito tutto il terzo settore segnando un calo del 26%. Il primo pensiero di Cecilia Strada, che nel progetto aveva creduto moltissimo, va ai venti redattori cui “erano tutti regolarmente assunti, oggi non possiamo più garantire loro un futuro lavorativo”. E dietro arrivano vagoni di amarezza e altrettanti spunti di riflessione sull’Italia, un Paese che funziona al contrario. “Le cose vanno alla rovescia – dice Cecilia – i soldi sono sempre meno, la crisi è più forte e gli ospedali sono sempre più pieni. Ma si taglia la spesa pubblica per scuola e sanità negandole a strati sempre più vasti di popolazione. Anche questa è una guerra, ovunque c’è un diritto negato ce n’è una, anche se non ci sono di mezzo le pallottole e le bombe a renderla evidente. Ecco, noi avevamo anche la volontà di raccontare queste guerre che non sono lontane, le abbiamo qui in casa, con morti e feriti”.
Emergency infatti nasce nel 1994 e diventa un punto di riferimento per i suoi ospedali in teatri di guerra lontani. Ma da tempo ha rivolto parte delle sue attività anche all’Italia aprendo quattro ambulatori (a Marghera e Palermo e poi due autobus itineranti). “Erano nati partendo dai bisogni dei cittadini stranieri irregolari cui per ovvi motivi era negato l’accesso alle strutture sanitarie pubbliche. Poi abbiamo cominciato a visitare i regolari che per altri motivi, soprattutto economici, non riescono neppure a fruire delle prestazioni cui hanno pure diritto, almeno sulla carta”.
E nell’ultimo anno e mezzo gli ambulatori hanno dovuto farsi carico di un numero crescente di cittadini italiani. “Su 7mila visite e prestazioni circa il 20%, ed è un dato che ci lascia sgomenti perché è il prezzo della crisi e delle scelte che si stanno compiendo. In vite umane e diritti, non diversamente che nei teatri di guerra”. Gli italiani cercano soprattutto cure dentistiche e visite ginecologiche perché perfino quelli esenti da ticket per ragioni di reddito devono sostenere i rimborsi per le spese dei materiali o l’acquisto dei medicinali. “E per un disoccupato o un pensionato spesso è un problema, senza contare che come rileva il Censis, ci sono 9 milioni di italiani che non si possono permettere il ticket. Se non è una guerra anche questa…”.