Ieri, a due settimane dall’inizio dei Giochi, i primi atleti hanno preso possesso del Villaggio Olimpico: una serie di palazzi che vanno dai tre ai dodici piani all’interno del Parco Olimpico, a due passi dallo Stadio. Stanze doppie per gli atleti, tutte provviste di cucinino, bagno, internet gratuito ed altre curiosità: come i 50 litri di acqua calda al giorno garantita ad ognuno dei 12mila abitanti (di cui più della metà atleti) del Villaggio; un beauty case completo con il logo olimpico su ogni cosa, dallo spazzolino allo shampoo; coperte, accappatoi e chiavette internet. Costato oltre un miliardo di sterline, di cui un quarto arrivato dai privati e il resto attinto dai fondi pubblici, è stato rivenduto l’anno scorso alla famiglia reale del Qatar, che lo trasformerà in appartamenti di lusso, per 557 milioni di sterline: ovvero una perdita secca di 275 milioni per le casse statali.
Poco distante dal Villaggio, appena fuori dal muro con filo spinato ad alto voltaggio elettrico che cinge il Parco Olimpico, nascosto in un complesso industriale tra cantieri per l’edilizia e fabbriche di prodotti chimici, sorge invece uno dei tanti villaggi dove sono alloggiati i lavoratori olimpici. Una schiera di migranti giunti a Londra appositamente per lavori temporanei, con il sogno di poter restare anche dopo. Katherine Faulkner, del Daily Mail, è andata a visitare il villaggio degli addetti alla pulizia e ha descritto una situazione apocalittica. Una serie di capannoni in lamiera che si allagano quando piove, in ognuno dei quali dormono fino a dieci persone ammassate su cuccette di ferro. Un bagno, già lercio e abbandonato a se stesso, ogni diciotto abitanti. Una doccia ogni settantacinque.
Il villaggio, definito senza mezzi termini dalla giornalista un campo di prigionia, è gestito da Cleanevent, la società che organizza i lavori temporanei di pulizia, che pretende dai suoi lavoratori 18 sterline al giorno (circa 550 al mese, quasi metà dello stipendio) per tale alloggio. Il comitato organizzatore di Londra 2012 (Locog), nonostante l’ispettorato della sanità del quartiere di Newham abbia ritenuto che il villaggio non fosse in grado di soddisfare i requisiti minimi, ha comunque dato la sua approvazione. Come da documento. Incuriositi, abbiamo percorso tutta la strada che dalla fermata della metropolitana di Bow Road, costeggiando il Parco Olimpico, si inoltra tra fatiscenti capannoni industriali e cantieri a cielo aperto per raggiungere Camp Cleanevent.
Circondato da alte mura protette da filo spinato, con un enorme cancello che ricorda quello dei campi di lavoro forzato, all’interno di un cortile si trova la distesa di capannoni in lamiera. Immersi nel fango delle continue piogge londinesi. Craigg, il responsabile del campo, ci si para davanti impedendoci di entrare per “motivi di sicurezza”, e ci assicura che in realtà la situazione è di molto migliore di quella descritta dal Daily Mail. Poi ci spiega che tra pochi giorni organizzeranno una visita guidata per la stampa per dimostrare come “tutto all’interno funziona perfettamente, al di là delle cazzate dette dalla tua collega”. Chiediamo allora di poterlo vedere di persona, senza aspettare la visita guidata, ma il permesso ci è negato con sempre maggior decisione.
Arrivano in appoggio a Craig anche Matthew e Fester, due energumeni scozzesi addetti alla sicurezza del campo, che ci assicurano, in tempi diversi ma con identiche parole, che anche loro vivono lì, che il posto è magnifico e che per 18 sterline al giorno hanno tre pasti caldi, il biliardo, il ping pong e internet gratuito. Ma di nuovo ci impediscono di entrare per averne conferma con i nostri occhi. Nel frattempo una schiera di lavoratori, per la maggior parte esteuropei o latini, entra ed esce per i turni di lavoro, il primo dalle sei di mattina l’ultimo da mezzanotte meno un quarto, ma nessuno vuole parlare. Non è possibile per contratto – spiegano quelli di lingua spagnola (ché qui l’inglese non lo parla nessuno) – abbiamo firmato delle liberatorie. Allontanandoci, sempre più convinti che la collega del Daily Mail purtroppo non abbia detto “un mucchio di cazzate”, incontriamo lungo la via Luis e Victoria.
Sono due ragazzi spagnoli di poco più di vent’anni arrivati a Camp Cleanevent da pochi giorni. Circospetti, spaventati, continuano a guardarsi introno mentre ammettono che “non si sarebbero mai aspettati di finire in una situazione del genere” e che “sì, il posto fa schifo, piove dentro nelle stanze e i bagni sono pochissimi e sempre sporchi”. Poi aggiungono anche “da stamattina stanno facendo un sacco di lavori, sembra che lo vogliano risistemare”, sembra abbiano voglia di parlare. Ma dopo cinque minuti, sempre più spaventati, corrono via scusandosi: “Non vorremmo avere problemi, non dovremmo essere qui a parlare con te”. E si allontanano insieme per fare ritorno in uno dei vari campi di lavoro olimpici, di fango e lamiera, così vicini eppure così lontani dagli occhi e dall’atmosfera dell’opulente e sfavillante Villaggio Olimpico.