Puntarella Rossa ancora in visita nella Grande Mela. Allo "Zio", tra una pappardella al ragù di agnello e un bicchiere di Sangiovese, Roberto racconta di come sia cambiata la cultura culinaria negli States e di come aprire un'attività sia cento volte più semplice che in Italia
Va bene, andare in vacanza a New York e aggirarsi alla disperata ricerca di un ristorante italiano può sembrare poco international e molto Totò. Tuttavia, essere finiti a mangiare pappardelle home made con ragù d’agnello accompagnate da un buon Sangiovese tra la Quinta e la Sesta strada è servito a qualcosa. Non solo a offrire una tregua di hot dog e Bubba gambs al nostro stomaco cresciuto a dieta mediterranea, ma anche a sfatare alcuni luoghi comuni sugli yankee. Primo, qui si mangia bene come in Italia. Secondo, i tempi in cui ti rifilavano spaghetti e ketchup sono archiviati (o quasi). E poi si scopre anche che aprire un locale a Manhattan è molto più facile che aprirlo a Roma o a Milano. Ahinoi, nella chiacchierata con Roberto Manfè, italianissimo ristoratore cui dodici anni a New York non hanno scalfito l’accento macaroni, i cliché se ne sono andati uno ad uno. A due passi dal Flatiron Building, Roberto da un anno gestisce “Zio”, il suo locale cento per cento made in Italy nel cuore nella Grande Mela.
Allora come sta andando il ristorante?
Direi bene, adesso abbiamo 20 dipendenti, ma spero presto di raddoppiarli. Dopo anni passati a gestire locali in questa città, ho finalmente fatto il grande passo di investire in un’attività mia. Con me ci sono i miei soci, Max Convertini, pugliese di Ostuni che viene dal Cipriani e che è anche il nostro chef, e Darren Berman, newyorkese, ex manager del gruppo di ristoranti italiani Bice.
Rispetto ad aprire un ristorante in Italia, che differenze hai trovato?
A New York, se hai voglia di avviare un’attività, puoi farlo in maniera molto più semplice rispetto all’Italia. Senza burocrazie inutili e passaggi infiniti. Certo, anche qui devi seguire le regole, ma da queste parti ti aiutano, non ti penalizzano. L’atteggiamento è completamente diverso: ovvero assisterti e non aspettarti al varco per darti la mazzata appena sbagli.
Che clientela avete?
Medio alta: il prezzo di massima si aggira attorno ai 40 dollari, ma puoi spenderne oltre i cento se vuoi mangiare un tartufo di prima qualità. Abbiamo molti clienti fissi, sia americani amanti della cucina italiana, che è tuttora la più richiesta in città, sia molti italiani: alle partite della Nazionale durante gli scorsi Europei il locale pareva lo stadio Olimpico! Questo ci dà l’idea che siamo sul binario giusto.
Come si conquista un cliente americano?
Secondo noi il valore aggiunto è offrirgli la cucina italiana, ma quella davvero made in Italy: le nostre paste sono tutte fatte in casa con farine italiane, il 90% dei prodotti è importato dall’Italia, dai vini ai latticini all’acqua. Insomma siamo un ristorante italiano doc, a differenza di molti altri qui a New York che di italiano hanno solo l’insegna.
Quindi niente rivisitazioni con yogurt e mostarda?
Assolutamente no. Basta scorrere il menu: da noi si trovano i ravioli fatti in casa con la polpa di granchio, i tagliolini integrali fatti in casa, gli gnudi toscani o il riso al salto, un tortino di risotto croccante allo zafferano servito con midollo di vitello. Tutte ricette della tradizione: e questo paga, la gente se ne accorge.
Ma davvero gli americani ne capiscono qualcosa di cucina italiana?
New York è una città che a livello culinario sta crescendo molto: le gente non è più come 20 anni fa quando era contenta se le servivi spaghetti e ketchup. Le paste stracotte e le lasagne al microonde, non sono leggende metropolitane, si vedevano davvero. Ma oggi è molto diverso: gli americani stanno imparando ad apprezzare la nostra cucina e anche a criticarla, a capire cosa è buono, cosa no. I corsi di cucina spopolano e online la clientela recensisce di continuo.
Insomma a New York aprire un locale è più facile e gli yankee non mangiano solo spaghetti e meatballs: New York-Italia, 1 a 0?
Forse uno a zero no, l’Italia è pur sempre l’Italia. Ma siamo fifty-fifty.
di Natascia Gargano