Caro Salvatore,
oggi non sono a Palermo. Ogni anno sono venuto con le Agende rosse e le coscienze civili in cerca di verità. Stavolta non mi è possibile, per motivi personali. Da tempo, peraltro, vivo quotidianamente con il patema dell’impotenza. Un’impotenza politica che aumenta con il passare dei giorni. Specie per l’ambiguità istituzionale sulla memoria di tuo fratello Paolo, di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Oltre ai giudici, tu hai sempre voluto nominare Emanuela Loi e gli altri poliziotti ammazzati, ricordandone il dono e sacrificio più alto: per lo Stato, la giustizia, il futuro dell’Italia.
Ovunque tu sia andato a parlare, nelle scuole, nelle piazze e in altri luoghi pubblici, hai schiacciato la sofferenza di sangue per alimentare la speranza dei più giovani, la speranza della lotta. Ci hai convinto a battere l’indifferenza, la rassegnazione, il silenzio; cioè le condizioni imposte dal potere, che trattò con la mafia e organizzò gli assetti politici successivi.
Oggi, consapevoli o meno, subiamo in profondità gli effetti di quel patto scellerato fra Stato e anti-Stato, chiuso nel segreto e nel compromesso morale; protetto dalla menzogna perpetua e da ultimo, spero per errore di metodo, da un’assurda riservatezza del presidente della Repubblica, postosi in conflitto costituzionale con la Procura di Palermo.
Ci hai anche insegnato a distinguere, caro Salvatore, perché da giovani si legge il mondo per contrasti: si tende a condannare o assolvere su sospetti e simpatie. Ricordo quando tentavamo d’impedire l’arrivo dei presidenti di Camera e Senato in via d’Amelio. La loro presenza di forma ci sembrava un oltraggio, una profanazione di quel luogo simbolico, sacro. Tu ribattevi: «Bisogna credere nello Stato, perché lo Stato siamo noi».
Oggi io non credo nello Stato come struttura che deve occuparsi dei cittadini, tutelare il lavoro e rendere giustizia. In parlamento si votano leggi per lobby, la disoccupazione viene dalla corruttela e i mandanti delle stragi dormono tranquilli. Tuttavia, portando nel cuore il tuo esempio umano, etico e culturale, continuo a immaginare un futuro trasparente, convinto che la parola rimuova qualunque schermatura della verità.
La parola non è, né può essere, il linguaggio persuasivo della stampa allineata. Voglio dire che il comportamento di Giorgio Napolitano merita da parte di ciascuno di noi, e proprio oggi, a 20 anni dall’eccidio di via D’Amelio, una corale richiesta di rettifica. Poiché, al di là delle conclusioni giuridiche sulle prerogative del Capo dello Stato, non si può ritardare per altro tempo l’arrivo della verità.