La Spagna collassa e l’Europa rischia di pagarne le conseguenze. La sentenza, lucidissima, arriva oggi con un coro a due voci. Quella di Cristobal Montoro, ministro del bilancio di Madrid che ammette candidamente quello che tutti avevano ormai capito (la Spagna, dice, “non ha un soldo in cassa per pagare i servizi pubblici e se la Banca centrale europea non avesse comprato i titoli di Stato, il Paese sarebbe fallito”), e quella, ancora più solenne, del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, per il quale i fallimenti iberici sono ormai un motivo di preoccupazione per l’intero continente. “Sui mercati – ha affermato – sono emersi dubbi sulla capacità dello Stato spagnolo di risolvere i problemi delle banche senza mettere a rischio la solvibilità delle finanze pubbliche. Anche solo un indizio in questo senso può portare a gravi effetti di contagio nell’Eurozona”.
Oggi la Spagna ha condotto un’asta sul suo debito rivelatasi a dir poco disastrosa. Tre miliardi scarsi di Bonos a diversa scadenza piazzati sul mercato a rendimenti molto elevati: 5,2% sul biennale, 6,4 sul quinquennale, 6,7 sul titolo a sette anni. Nell’asta precedente, i tassi accordati si erano attestati rispettivamente al 4,3, 6 e 4,8%. La curva, insomma, tende ad appiattirsi verso l’alto e i costi di finanziamento crescono di conseguenza. Questa mattina, intanto, lo spread Italia-Germania ha toccato la soglia dei 500 punti per poi ripiegare verso livelli più consoni. Francia, Austria e Belgio, nel frattempo, hanno collocato sul mercato i loro titoli decennali centrando tutti e tre i rispettivi minimi storici (2,0, 1,83 e 2,44%), un altro segnale del temuto (dal nostro punto di vista) decoupling tra il centro e la periferia: i titoli dell’Europa di serie A diventano sempre più beni rifugio, su quelli iberici e italiani, al contrario, si concentra la speculazione ribassista (e quindi al rialzo dei rendimenti).
Gira e rigira, insomma, non se ne esce. Chi difende la politica dei tagli (oggi Madrid, ma lo stesso discorso vale anche per l’Italia) ha le sue valide ragioni. Ma quella che resta un’esigenza contabile di fatto non funziona. La crescita è ormai un miraggio, ma per attivarla servirebbe soprattutto un abbassamento della pressione fiscale, vale a dire esattamente ciò che nessuno si può permettere. Eccolo dunque il solito circolo vizioso dello spread e della relativa impennata dei costi di finanziamento, ecco il nesso ormai familiare tra pressioni dei mercati e recessione. L’incertezza sul futuro dell’euro, stima oggi uno studio della Confindustria, vale per il titolo italiano circa 300 punti di spread.
Come a dire che guardando ai soli fondamentali (debito pubblico e crescita) il divario Bund/Btp non dovrebbe superare i 164 punti, più o meno, verrebbe da aggiungere, il differenziale che abbiamo conosciuto prima che la speculazione azzannasse i mercati europei a partire dalla primavera 2011. Il problema, precisa però Confindustria, è che non si tratta solo di un aspetto contabile: “Il maggiore spread – si legge nelle pagine del documento – causa perdite pari allo 0,9% del Pil e a 144mila posti di lavoro e maggiori oneri per interessi pari a 12,4 miliardi a carico del bilancio pubblico, 12,1 miliardi sui conti delle famiglie e 23,7 su quelli delle imprese”. Senza contare, inoltre, che le “perdite di prodotto e occupazione abbattono il potenziale di crescita futura, vanificando parte degli sforzi effettuati con le politiche di risanamento e di riforma strutturale e minando il consenso a favore di quelle stesse politiche di riforme e risanamento, che nell’immediato impongono inevitabili sacrifici al Paese”.
E’ anche alla luce di tutto questo che le parole di Schäuble acquistano un significato profondo. Oggi il Bundestag ha approvato gli aiuti europei per rifinanziare le banche spagnole e ha discusso di nuovo di fondi salva-Stati, coerentemente bloccato nella sua logica della prudenza che frena l’intera Ue. E’ bastato che circolasse qualche voce sulla possibilità che una parte dei fondi salva banche potesse essere utilizzata per l’acquisto dei titoli di Madrid (a conti fatti qualche decina di miliardi sui 100 di budget accantonati per il sistema creditizio spagnolo) per indurre immediatamente la Commissione europea ad escludere apertamente questa possibilità. Lo schema di intervento sul mercato secondario dei titoli attraverso l’Esm resta confinato nei limiti di budget del fondo stesso, 500 miliardi che sembrano già poca cosa.
Monti e Rajoy avrebbero voluto un sistema diverso, automatico e potenzialmente illimitato dando campo libero alla Bce. La Merkel si è opposta e, in definitiva, ha ottenuto la sua vittoria. Alcuni noti economisti europei, a cominciare dal belga Paul De Grauwe, una delle voci più autorevoli del panorama continentale, hanno evidenziato proprio questo punto denunciando a priori l’inefficacia del sistema. Con un fondo dotato di risorse limitate non c’è modo di abbassare lo spread in modo permanente. L’Esm (uno dei fondi salva-Stati) acquista ma non rigenera la sua liquidità: agli speculatori, in altre parole, basta scommettere sul momento in cui il fondo esaurirà le proprie risorse e il gioco è fatto. Monti lo ha capito da tempo. Schäuble anche. Sebbene non possa ammetterlo.