L’Istat ha fotografato la situazione: 34% delle lavoratrici ha più di tre figli e il 33% delle italiane under 54 non ha alcun reddito. Solo le multinazionali premiano le mamme
La trappola scatta intorno ai 30, 35 anni. Lei è brava, spesso laureata, ha un posto di lavoro dove tutti sgomitano per farsi un po’ più avanti. E pure lei cerca di trovare un varco, ma vorrebbe anche fare un figlio, investire su qualcosa che non sia denaro o carriera. Lo fa. Spera che tra nonni, asilo e divina provvidenza esista un modo per saltarne fuori, per diventare una brava mamma e una donna capace di indipendenza. “In realtà, di solito, il contraccolpo della maternità è sempre duro – razionalizza Roberta Bortone, giuslavorista –. Perché il lavoro in Italia è ancora apprezzato in termini tayloriani: vale la quantità, non la qualità. E soprattutto vige la presunzione per cui un figlio finisce a carico delle cure femminili. All’estero ci sono studi poderosi sulle abilità sviluppate dalle lavoratrici che diventano mamme: in Italia solo le multinazionali ci credono”.
QUINDI, quando nasce un figlio, in Italia la lavoratrice si fa meno affidabile, mentre papà resta quello di prima e continua la carriera senza scossoni. L’Istat ha fotografato perfettamente la situazione: il tasso di occupazione tra i 20 e 49 anni è al punto di minima distanza tra uomini e donne se i figli non ci sono (76 per cento i maschi, 65 le femmine). Quando invece arrivano i pupi, ecco aprirsi la forbice: ne basta solo uno per lanciare l’occupazione maschile al 90 per cento e schiacciare quella femminile al 58. Con due bimbi le lavoratrici calano ancora (51%, mentre i padri restano immobili), per precipitare al 34 per cento di occupate con 3 o più figli. I pluripapà mantengono l’occupazione all’85 per cento. Bortone spiega: “Se la famiglia cresce si privilegia lo stipendio più alto, cioè quello del marito. La donna spera di rimettersi in gioco quando i ragazzi crescono, ma è una missione praticamente impossibile nel mercato italiano. Senza investimenti specifici e un radicale cambio di cultura, non avremo mai pari opportunità sociali e professionali. Attendiamo tutti con ansia un Parlamento capace di imporre in agenda la parità, per ora direi che siamo messe peggio degli anni 70 e 80”.
I passi normativi verso il cambiamento sono incerti. Negli ultimi anni si sono riconosciute fragili tutele alle maternità atipiche, e anche sul fronte culturale gli sforzi si limitano a pochi episodi. “Dopo il modello berlusconiano, il ruolo femminile può essere ridefinito – continua Bortone –. Il gesto del ministro Fornero, cioè il congedo obbligatorio di paternità per tre giorni, è un simbolo da cui partire. Certo, tre giorni sono niente, ma è un modo per dire a tutti: se nasce un bambino devono occuparsene mamma e papà”.
LA MENTALITÀ, prima di di tutto. Anche senza sognare i paradisi della conciliazione (dalla Svezia alla Germania), basta vedere cos’è successo in Spagna dagli anni ’90 a oggi: paese cattolico, latino, tradizionalista, eppure capace di ridistribuire le risorse in funzione paritaria e di rimetter mano perfino ai testi scolastici pur di spiegare ai – futuri – cittadini come il contributo di donne e uomini sia l’equilibrio indispensabile nella lotta evolutiva. Specie ora che la crisi morde, ed è un bene per tutti calcolare che, se papà perde il lavoro, ci può essere mamma a tamponare l’emergenza. O che, più ottimisticamente, sia possibile per uomini e donne decidere quanta parte di sè dedicare al lavoro e quanto alla famiglia, nel terzo millennio.
Di fatto, nel giro di 15 anni, la Spagna ha ridotto molto la differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile (dal 33 al 12 per cento), mentre quella italiana è rimasta alta (dal 32 al 24 per cento). Perché sono i numeri che riportano alle differenze. In Italia, anno 2011, l’occupazione femminile è al 49,3 per cento (peggior dato europeo dopo Malta). Dulcis in fundo, il 33,7 per cento delle donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce alcun reddito: nei Paesi scandinavi sono meno del 4 per cento, in Francia l’11, in Spagna il 22.
da Il Fatto Quotidiano del 19 luglio 2012