Quello che segue è niente più che un gioco. Un gioco letterario, che non toglie e non aggiunge niente, se non il gusto di trastullarsi con le parole, come farebbe un enigmista, o il titolare di un corso di scrittura creativa che voglia insegnare ai suoi allievi l’importanza della prima e dell’ultima frase di un romanzo. Ecco, io non sono né un enigmista né ho mai tenuto corsi di scrittura creativa. A buon bisogno non sarò neppure così originale; sono quasi certo che da qualche parte, prima di me, qualcun altro si è già dilettato in questo gioco o in qualcosa di molto simile.
Bene, fatta la debita premessa vengo a spiegare di che si tratta. Dunque, l’idea mi è venuta leggendo un bellissimo tweet della scrittrice Francesca Mazzucato. Il tweet diceva questo: “Conosco già il destino degli incipit e ho imparato il conforto dei finali”. Non so di preciso a che si riferisse Francesca; non gliel’ho chiesto. Quelle parole però, in quella esatta disposizione, mi hanno suggerito il gioco.
Il libro che in quel momento, per puro caso, avevo a portata di mano era Il partigiano Johnny di Fenoglio, l’ho aperto e ho letto l’incipit: “Johnny stava osservando la sua città dalla finestra”. Poi, saltando a pie’ pari tutto il romanzo, sono andato a leggermi l’excipit: “Due mesi dopo la guerra era finita”. Ho accoppiato incipit ed excipit e il risultato è stato sorprendente:
“Johnny stava osservando la sua città dalla finestra. […] Due mesi dopo la guerra era finita”.
Musil diceva che “nel rapporto fondamentale con se stessi gli esseri umani sono prevalentemente dei narratori […]; amano il succedersi ordinato dei fatti perché assomiglia a una necessità, e l’impressione che la loro vita abbia un corso li fa sentire come protetti in mezzo al caos”. Un milione di volte abbiamo sentito dire che in un buon attacco c’è condensato tutto il senso e la meraviglia di un romanzo. L’attacco, dunque, è il principio che darà ordine al caos. Il gioco mi suggerisce che se mettiamo insieme inizio e fine, saltando con poco riguardo tutto ciò che sta nel mezzo, non ci sarà più ordine né caos, ma ci sarà un “fatto” letterario nuovo, un corpuscolo che contiene tutte le informazioni rilevanti dell’opera, pur mancando della gran parte di essa.
Così un libro colossale come Moby Dick, quasi 600 pagine nell’edizione del 1987 che possiedo io – Adelphi, traduzione di Cesare Pavese – diventa questo: “Chiamatemi Ismaele. […] che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano”.
E che dire del concentrato di indifferenza e nichilismo in cui si addensa Lo straniero di Camus: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. […] mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”.
Tagliando testa e coda di un altro capolavoro della letteratura universale, il Martin Eden di Jack London, e unendoli fra loro si raggiungono poi vette di trascendenza: “Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò […] Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere”.
Il mio preferito però è il paradosso metaletterario che si produce in Delitto e castigo: “In una giornata estremamente calda del principio di luglio, verso sera, un giovane scese in strada dalla stanzuccia che aveva in subaffitto nel vicolo di S. […] Questo potrebbe formare argomento di un nuovo racconto; ma il nostro racconto odierno è finito”.
Per concludere – ma il gioco è potenzialmente infinito, come sono infiniti i romanzi della letteratura universale – il bellissimo testacoda di Cristo si è fermato a Eboli, con la raccomandazione di fare questo gioco solo con i libri che avete letto (perché i libri vanno letti dall’inizio alla fine, senza saltare niente): “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia […] che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato”.