Sono giovani, con un’età che arriva nella maggior parte dei casi ai 40 anni. E sono sia italiani che stranieri, un esercito di lavoratori in nero (in toto o in parte) che, nel comparto del turismo sulla riviera romagnola, condividono situazioni analoghe, con paghe orarie che variano dai 3 ai 4 euro e turni che possono raggiungere le 15 ore al giorno (per tutti tra le 80 e le 90 ore a settimana). Per Patrizia Rinaldis, presidente dell’Associazione italiana albergatori (Aia) di Rimini, sono “casi limite che non rispecchiano il nostro turismo”. Per altri, invece, il “lavoro gravemente sfruttato è un fenomeno talmente epidemico che non possiamo segnalare un datore di lavoro piuttosto di un altro: lo fanno tutti”.

Ad affermarlo sono due realtà che da anni lavorano a fianco degli stagionali. Sono il comitato Schiavi in Riviera e l’associazione Rumori Sinistri che nelle settimane scorse hanno collaborato con il consigliere riminese Fabio Pazzaglia della lista Fare Comune a un’interpellanza contro lo schiavismo nel turismo. Scopo è quello di arrivare a settembre a un consiglio comunale tematico in cui trovino spazio le voci dei lavoratori, quelle che denunciano condizioni di mancato rispetto dei contratti nazionali di categoria e un uso “disinvolto” di strumenti ad hoc, come i contratti a chiamata.

“Parlare di questo argomento in riviera è difficile”, dice Pazzaglia. “Si pensi che a Rimini ci sono 40 vigili che devono controllare gli ambulanti abusivi e solo 2 che invece devono occuparsi delle condizioni dei lavoratori in alberghi, ristoranti o impianti balneari”. Gli ispettori del lavoro che girano sono 23, “ma non sempre sono nelle condizioni di rilevare reali abusi da parte dei titolari degli esercizi”, spiega Marco, uno degli attivisti di Schiavi in Riviera. Trentatreenne, conosce bene il settore dato che “ho cominciato a lavorare come stagionale a 15 anni e ancora oggi ho bisogno di arrotondare per arrivare a fine mese. Così la sera faccio il cameriere”.

Marco ha iniziato nel 2008 a “fare squadra” con altri colleghi – oggi il gruppo è composto da una decina di attivisti e da un centinaio di sostenitori – e spiega che per “aggirare i controlli, i lavoratori sono istruiti a dire che è il loro primo giorno, hanno preso servizio da un’ora o da due e che non conoscono nessuno degli altri”. Il meccanismo, secondo gli attivisti romagnoli, è quello dell’abuso del contratto a chiamata, conosciuto anche come contratto di lavoro intermittente. “Avvalendosi male di questo strumento”, prosegue il giovane romagnolo, “i versamenti contributivi sono quasi inesistenti, non si ha diritto a indennità di disoccupazione e si può essere licenziati facilmente”.

E come se non bastasse, nel pieno della stagione, si viene “chiamati” tutti i giorni. Mauro, 19 anni, vive a San Mauro Mare e da quando ne aveva 14 d’estate fa il barista nei bar sulla spiaggia o in birrerie la sera. “Succede che possa lavorare ben oltre i giorni pattuiti e vengo avvertito all’ultimo momento. Ma può succedere anche il contrario: se c’è maltempo mi dicono via sms che me ne posso stare a casa. Il messaggio può arrivare alle 7 del mattino, dopo che ho lavorato fino alle 2 e che mi sono già svegliato per riprendere. Quest’anno ho fatto un colloquio in un pub: volevano che lavorassi tutte le notti senza contratto per una paga di 3 euro all’ora. Ho rifiutato”.

Claudio di anni ne ha 24, è di origine campana ma vive da tempo a Rimini e fa il cameriere in una pizzeria. “Il contratto a chiamata per me vale sempre, prendo un migliaio di euro al mese e in una settimana posso fare fino a 90 ore”. L’unica storia, tra quelle raccolte, con un esito positivo è quella Tommaso, 26 anni, un ragazzo riminese che lavora nel salvataggio. “Prima ero in un officina meccanica”, dice, “e quando sono rimasto disoccupato ho pensato di fare la stagione. Mi hanno preso ufficialmente per 6 ore e 20 minuti al giorno. Invece ne facevo almeno 8 e quando ho avuto un lutto in famiglia i miei datori di lavoro stentavano a lasciarmi i giorni per il funerale e per stare con i parenti. Allora ho iniziato a informarmi sui miei diritti e ho minacciato una vertenza. A quel punto mi hanno regolarizzato e regolare lo sono ancora oggi. Ma non tutti nel mio impianto lo sono”.

Laura, 40 anni, oggi fa la guida turistica, ha un contratto come si deve, ma del suo precedente lavoro in un hotel di Rimini non ha mai visto neanche un soldo. “Ero regolarizzata per il 30% di quello che in realtà lavoravo, il restante stipendio mi veniva dato in nero. All’inizio ho accettato perché avevo bisogno di denaro, ma poi passa il primo mese e non mi pagano, passa il secondo e la situazione è la stessa. A quel punto mi sono rivolta a chi poteva assistermi nell’avere quello che mi spettava. Durante una manifestazione davanti all’albergo, però, con sono stata aggredita a parole e non solo”.

Quello del passare dall’abuso contrattuale all’aggressività verbale e fisica è un nodo che segnala anche Manila Ricci dell’associazione Rumori Sinistri. “Il problema è nel complesso così grave che non possiamo più gestirlo come gruppo di volontari. Sta dunque partendo una campagna che prevede anche l’attivazione di una linea telefonica perché i lavoratori para-schiavizzati vanno oltre la stagione estiva e c’è un bisogno costante di supporto specialistico. Occorre rompere il meccanismo di omertà e il sistema del lavoro schiavistico del turismo”.

Un sistema che, se per gli italiani è drammatico, lo è ancora di più per gli stranieri, soprattutto donne comunitarie che arrivano dalla Romania. I migranti sono sotto ricatto anche per il posto letto compreso nel “pacchetto” lavorativo (se protestano, l’alloggio rischia di saltare) e nel 2011 l’associazione Rumori Sinistri ha ricevuto 198 persone allo sportello antisfruttamento. Di queste 174 erano romene e 142 hanno pagato agenzie di intermediazione italiane con uffici nei Paesi d’origine. Il prezzo per lavorare a condizioni estreme in Italia si aggira sui 600 euro per i cittadini comunitari, ma può arrivare a 1700 per chi viene da nazioni extra Unione europea.

Quattro di queste lavoratrici, tutte romene, hanno però reagito e attraverso l’associazione hanno ottenuto il supporto di un avvocato romagnolo, Raffaele Pacifico, che in tarda primavera ha presentato una denuncia alla procura della Repubblica di Rimini per riduzione in schiavitù e mobbing. “Ho raccolto i loro racconti in lingua originale e poi li ho fatti tradurre”, spiega il legale. “Sono racconti crudi che parlano di avanzi di cibo da mangiare con gli animali domestici dei titolari degli alberghi, di giorni di riposo mai concessi e di assenze per malattia negate. Avendo pagato per venire in Italia a lavorare, queste lavoratrici non potevano tornare nel loro Paese prima della fine della stagione. Ora i magistrati sono in fase istruttoria e stanno valutando tutta la documentazione che ho allegato alla denuncia, certificati medici compresi”.

Mentre il consigliere Pazzaglia e le associazioni di lavoratori chiedono che si arrivi a un “certificato di qualità” che attesti il rispetto degli operatori del settore per contratti e condizioni di lavoro, l’Aia respinge le accuse e dice che non si tratta di una situazione generalizzata. “Casi ce ne sono”, spiega ancora la presidente De Rinaldis. “Il figlio di una mia collaboratrice, per fare il bagnino, ha preso 50 euro per dieci giorni, è una vergogna, prenderei chi lo ha trattato così a calci nel sedere”. La rappresentante degli albergatori è in realtà ancora più esplicita quando parla di questo episodio, ma aggiunge riferendosi al comparto: “Vorrei andare io dai sindacati a dire che c’è personale in eccesso che non fa niente e che rifiuta di spostarsi per esempio dalle cucine ai piani se in cucina non c’è nulla da fare e invece serve una mano altrove”.

E insiste a parlare di “situazioni limite, da non difendere, certo, ma comunque marginali”. Ma limite o meno che siano queste situazioni, i lavoratori sfruttati potrebbero bussare alla porta dell’Aia trovando un interlocutore che intervenga per sanare ciò che sano non è? “Non è questo il nostro lavoro”, risponde Patrizia De Rinaldis. “Ci sono delle regole che devono essere rispettate, ma sono altri gli organi che lo devono fare. Personalmente faccio convegni e corsi per ribadire quali sono queste regole. Le verità è che noi per primi subiamo la concorrenza sleale di chi sfrutta i lavoratori usando forme di flessibilità estreme che mettono a rischio a 80 mila posti di lavoro nel settore”.

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