Carestie, conflitti, disastri naturali. L’Ufficio di coordinamento delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) elenca le cause che in tutto il mondo hanno reso la vita di 62 milioni di persone dipendente dagli aiuti umanitari. Un numero in ascesa. Più 20 per cento dall’inizio dell’anno, quando le persone bisognose di soccorso erano 51 milioni.
Condizioni che accomunano almeno venti Paesi, ma che si fanno particolarmente gravi in nove nazioni del Sahel: Senegal, Gambia, Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso, Nigeria, Ciad e Camerun. In tutta la regione africana sono almeno 18 milioni le persone a rischio di cui un milione i bambini e le bambine che soffrono per la grave malnutrizione. Come spiega il coordinatore regionale, David Gressly sul sito dell’Ocha, periodi di siccità, alternati a precipitazioni irregolari, hanno colpito l’area nel 2005, nel 2010 e ancora l’anno scorso.
Alla crisi, come sottolineato dalla Fao all’inizio di luglio, contribuiscono inoltre l’aumento del prezzo del cibo, persino le locuste e soprattutto l’instabilità, con le violenze in Nigeria, gli scontri al confine tra i due Sudan e il conflitto per il controllo del nord del Mali tra i ribelli tuareg e le milizie fondamentaliste che ha fatto oltre 350mila sfollati di cui 200mila profughi costretti a cercare rifugio nei Paesi vicini.
Spostandosi a oriente, trascorso un anno esatto dalla proclamazione dello stato di carestia nel Corno d’Africa (ufficialmente terminato lo scorso febbraio) e nonostante gli sforzi umanitari, ancora 2,5 milioni di persone nella sola Somalia (sono 8 milioni in tutta l’area) subiscono la crisi alimentare che sta dilaniando la regione e per almeno 1,3 milioni di somali il rischio è che una nuova crisi possa scoppiare nei prossimi due mesi
“’I tassi di mortalità e malnutrizione in Somalia sono aumentati notevolmente attestandosi tra i più alti nel mondo”, ha sottolineato Mark Bowden, coordinatore umanitario dell’Onu per il Paese che ha ricordato le decine di migliaia di somali morti per la siccità e la guerra. Se poi si attraversa il golfo di Aden, il 60 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre forme croniche di malnutrizione in Yemen, un percentuale seconda soltanto all’Afghanistan. E sarebbero almeno 1,5 milioni i siriani afflitti dalla rivolta per chiedere la destituzione del presidente Bashar al Assad che entrata nel sedicesimo mese è ormai degenerata in guerra civile.
Ad oggi tuttavia mancano nelle casse 4,8 miliardi di dollari per venire incontro alle esigenze di chi ha bisogno. Dall’inizio dell’anno la richiesta Onu di fondi è passata da 7,8 miliardi a 8,8 miliardi, ma al momento è stato raccolto appena il 45 per cento di quanto serve.
“Abbiamo raggiunto 21 milioni di persone, ma i nostri partner hanno bisogno di ulteriori risorse. Chiedo ai donatori di continuare a essere generosi per poter avere aiuti effettivi, coordinati e tempestivi”, ha detto Valerie Amos, sottosegretario generale agli Affari umanitari.
Tuttavia guardando all’anno passato il rischio è che in molti rimangano senza assistenza. Come emerge dall’ultimo rapporto di Global Humanitarian Assistance, quasi i due quinti degli appelli per finanziare gli aiuti umanitari sono caduti nel vuoto. Rispetto all’anno precedente è calato il numero di persone colpite dalle crisi umanitarie. Erano 74 milioni nel 2010, anno in cui ebbero un grande impatto, anche mediatico, sia il terremoto ad Haiti sia le alluvioni in Pakistan.
Ma al calo dei bisogni ha fatto seguito anche un calo totale degli aiuti internazionali. Meno 9 per cento rispetto all’anno prima, da 18,8 miliardi a 17 miliardi, ma comunque sopra le cifre del 2009. Per quanto riguarda i fondi chiesti attraverso i meccanismi Onu, nel 2010 dal Palazzo di Vetro partirono appelli per 11,3 miliardi di dollari, l’anno scorso i miliardi necessari furono 8,9, ma soltanto 5,5 furono raccolti.
Diminuiscono le persone da aiutare, i soldi chiesti, ma anche le risposte dei donatori. Sintomo che qualcosa nel sistema non funziona, ha spiegato in conferenza stampa Lydia Poole, coordinatrice per la pubblicazione del rapporto che sottolinea: non si investe in prevenzione e alcune emergenze sembrano essere più importanti di altre.
di Andrea Pira