La seconda metà del Quattrocento è l’epoca in cui è proprio il concetto di “libro” a subire una radicale trasformazione: da privilegiato oggetto d’élite, da status symbol di pochissimi intellettuali facoltosi, in grado di mettere assieme alcune decine di volumi miniati come massimo simbolo della propria ricchezza spirituale (e materiale), a oggetto destinato a una riproduzione potenzialmente alla portata di tutti. Abbastanza prevedibile che diversi cultori del libro miniato giudicassero i primi libri a stampa come qualcosa di posticcio, temporaneo e segno del vizioso decadere dei tempi, al punto da – spessissimo – risolversi ad acquistare il “lercio” volume a stampa per poi farlo serenamente ricopiare a mano da qualche fidaterrimo ac reverentissimo copista, e da aggiungere alla propria biblioteca la copia a mano, rimettendo in circolazione quella stampata.
Un passo più in là fece appunto il veneziano Filippo da Strada, per il quale l’invenzione e la compravendita del libro stampato era giusto un volgare vizio della plebe, da vietare per legge. Per ciò, fra il 1473 e gli anni Novanta, scrisse al doge Marcello e al senatore Giovanni Capello, quest’ultimo membro del potente Consiglio dei Dieci, chiedendo loro di mettere fuori legge la stampa. A Marcello fu così inviata una traduzione della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, preceduta da un poema latino in cui promuoveva il bando dell’attività tipografica dalla città. Al senatore spedì invece un volgarizzamento del Fiore di virtù, la cui prefazione era un altro attacco ai tipografi. Filippo da Strada, nei suoi j’accuse, approfittò anche del fatto che nel lessico in uso nel latino tecnico medievale fino al 1460 s’individuava con il termine “stampa” solo il lavoro svolto dalla zecca. L’intellettuale dominicano dunque sovrapponeva di proposito i tipografi ai falsari e, come ricorda Pierno, “l’assimilazione del mestiere tipografico al reato era dunque possibile e poteva comportare anche accuse che andavano al di là della stessa falsificazione: alcuni librai erano stati addirittura arrestati per reati di sodomia.”
D’altro canto, ricorda sempre Pierno, librai e insegnanti erano “rei di utilizzare o vendere testi di autori ‘scandalosi’” quali erano considerati Tibullo e Ovidio: “il facile contatto che il libro procurava con i lettori, spesso giovani studenti, doveva far inarcare più di un sopracciglio ai benpensanti veneziani, i quali non esitavano a confondere la letteratura con la realtà.“
Lo stesso Filippo da Strada si rese conto, lungo l’arco della sua vita, che la sua crociata era destinata al fiasco più completo. Resta però emblematica per dire che al desiderio di reazione dinanzi al cambiamento dell’uomo non v’è mai fine, e che ogni forma di luddismo – anche quelle di molto precedenti al sor Ned Ludd dinanzi ai primi telai meccanici della rivoluzione industriale – prima o poi è condannata a dimostrare tutta la sua inutile stoltezza. Come un lampo viene alla mente l’immagine di quel professore di Estetica, Stefano Zecchi, che essendo divenuto noto per una serie di sue comparsate nel circo catodico di Maurizio Costanzo, negli anni tragicamente ’80 del già XX secolo, guardava fisso in camera e diceva, pensando di esprimere concetto di troppo profonda intelligenza per le masse: “Se uso il computer? Questo è il mio computer” ostentando una matita. Il tutto, cinque secoli dopo Filippo da Strada, signori, come a dire: lasciate ogni speranza.