L’affermazione è di assoluto buon senso. È la “spending review” (definizione elegante per dire “il taglio di tutte le spese”) che non è di buon senso. Non lo è (non può esserlo) perché è una risposta d’urgenza in un momento che non offre occasioni per riflettere e impone la fretta precipitosa della necessità. Contro la tempesta finanziaria sono state erette barriere difensive di tutti i tipi, a cura dei migliori esperti. Ma il ghibli delle libere scorrerie di speculazione passa sotto e sopra e attraverso tutte le difese, una sabbia globale che arriva dovunque, danneggia i migliori motori e invade spazi che credevamo blindati. Una delle risposte (speriamo che sia giusta, ma non c’è tempo per approfondire la discussione) è di sgombrare in fretta gli spazi invasi, irrigidendo continuamente la linea di difesa, detta “austerità”. Significa tagli e risparmi che forse bloccano il futuro, ma sul momento consentono di sopravvivere, in attesa di notizie. Per ora sono sempre notizie cattive. Che fare? Diciamo che è il momento, che è il destino, che non resta che ostinarsi a sperare. Se non altro, l’enorme problema è fronteggiato da competenti senza interessi propri, e questo non è poco. Uno di loro, però (lo abbiamo appena visto), si chiama fuori . Le parole “di buon senso” che abbiamo citato sono del ministro della Difesa, ammiraglio Di Paola. Dice con fermezza: tagliare? Io no.
Spiega, e la spiegazione, abbiamo visto, è logica. Però la definiremmo subito irrealistica e pericolosa se la facesse – mettiamo – il responsabile dei Beni culturali.
C’è il rischio che il lettore colga un suono quasi frivolo, comunque leggero, nelle parole “Beni culturali” a confronto con la questione “forze armate”. Eppure è il settore giusto per il confronto. Se abbiamo qualcosa da difendere, in Italia, come base e fonte della ricchezza e della sostanziale stabilta’ della costruzione Italia, sono i Beni culturali.
Scriveva alcuni giorni fa il New York Times: “Ogni mille metri di spazio, in Italia, costituisce un museo all’ aperto più importante o altrettanto importante di ogni altro museo del mondo”. Vuol dire che l’Italia è uno smisurato giacimento di ricchezza. Ma non ci sono posti di guardia di nessun tipo, e cominciano ad arrivare notizie di musei chiusi la domenica. È facile rendersi conto della vastità della perdita. Ma i tagli sono necessari e non ci sono eccezioni.
Però la storia è diversa se torniamo al nostro uomo delle Forze armate. Cito, dalla fonte già indicata, un passaggio della sua intervista: “C’è nell’aria un furore ideologico contro le Forze armate che non mi spiego. La sicurezza è un bene condiviso la cui responsabilità è di tutti. Un Paese come l’Italia non può sottrarsi a questo dovere. Le Forze armate non possono essere meno efficienti. Altrimenti si fa prima a chiuderle”. E più avanti l’ammiraglio ripete: “C’è un chiaro pregiudizio ideologico: se non vogliamo le Forze armate, eliminiamo le Forze armate e non ne parliamo più. Ma gli italiani non la pensano così, come dimostrano i sondaggi”.
Il titolare della Difesa reagisce con fermezza alla questione, per quanto necessaria e urgente, dei tagli. Usa tre argomenti del tutto vietati al ministro della Salute, dell’Istruzione, del Lavoro, e a tutti gli altri ministri ed enti colpiti dagli inesorabili tagli.
Primo argomento: “Chi tocca il mio settore lo fa per pregiudizio ideologico”. Ovvero: per odio verso le Forze armate. Sostituite le parole “Forze armate” con “Sistema scolastico” oppure con “Servizio sanitario nazionale”, e subito capite che una simile affermazione diventa impossibile. Molti di noi hanno obiezioni fortissime a tagli così drastici e così estranei alle questioni drammatiche dei singoli settori, come quelli imposti dalla spending review. Nessuno, però, in nessun campo, aveva pensato di invocare odio o pregiudizio ideologico, che è un modo di bloccare il discorso.
Secondo argomento: “Ma allora abolite le Forze armate, e non se ne parli più”. Ovvero, data la materia, un ricatto esplicito da parte di qualcuno che sa di trattare da un livello diverso dagli altri. Dopo tutto, come ha detto fin dalle prime righe dell’intervista l’ammiraglio, le Forze armate sono armate. E bisogna armarle di più.
Terzo argomento, il sondaggio. È una buona notizia che il riscontro dei sondaggi dimostri che i cittadini italiani, tormentati come sono da un turbine di problemi, restino affezionati ai loro soldati. Ma l’argomento vale più che mai per le scuole, per gli ospedali, e (non solo per i cittadini italiani) a proposito di musei chiusi la domenica e dei monumenti abbandonati.
Il fatto è che l’ammiraglio Giampaolo Di Paola ha reagito in modo intelligente, dal punto di vista del suo interesse di ministro della Difesa: invece di accettare con un sospiro, ha reagito con una sgridata che accusa senza esitazione chiunque pensi di non acquistare gli F35 a decollo verticale (90 aerei, ciascuno del costo di una scuola, o di un centro ospedaliero di rianimazione dotato di avanzata tecnologia), di essere accecato da pregiudizio ideologico contro le Forze armate. Dunque attenti al buon nome.
Ha ragione l’ammiraglio, un pregiudizio c’è. Ma è rovesciato. Si chiama subordinazione o timore. Tanto è vero che nessuno gli ha risposto, come se il suo non fosse un settore dell’amministrazione diretto dalla politica, ma una regione che sta un po’ sopra lo Stato che arranca e che taglia. Qui (nel dipartimento militare) chi tocca è nemico. Si vede subito che la situazione è segnata da uno squilibrio. Ci sono due vie d’uscita. La prima è che tutti gli altri ministri seguano il modello Di Paola. Perché dichiararsi inferiori e meritevoli di tagli se, con un po’ di grinta militare, è possibile scansarli? La seconda è una urgente, amichevole conversazione del presidente del Consiglio con il suo ministro della Difesa.