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Oswaldo Payá, l’uomo che rese “irreversibile” il socialismo cubano

Chissà: forse il modo migliore per celebrare Oswaldo Payá Sardiñas – il dissidente cubano morto domenica scorsa in un incidente d’auto – è proprio questo: ricordarlo non per le sue virtù (oggi molto ipocritamente riscoperte anche da chi, in vita, lo coprì di insulti), ma per quello che mai avrebbe voluto ottenere. O, se si preferisce, per il più ovvio dei suoi insuccessi: la trasformazione del socialismo cubano, un regime da lui contestato e combattuto, in un’entità “costituzionalmente irreversibile”.

La storia è nota a tutti coloro che hanno un’appena abbozzata conoscenza di Cuba, ma vale la pena raccontarla di nuovo. Oswaldo Payá, cattolico e leader del Movimiento Cristiano Liberación (ovviamente illegale) fu il dissidente che, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio, lanciò il cosiddetto “Progetto Varela” (da Felix Varela, prete cattolico ed illustre personaggio della lotta per l’indipendenza cubana). Ovvero: l’unica iniziativa che sia riuscita, in questo medio secolo di castrismo, a superare i limiti d’un movimento d’opposizione mai diventato davvero tale, tanto per vizi propri (un’endemica e molto endogena frammentazione politica), quanto per gli effetti dell’attività repressivo-preventiva del castrismo (un’endemica frammentazione ad arte provocata da un sapientissimo lavoro d’infiltrazione).

Paradossalmente, fu proprio la natura “non sovversiva” del Progetto Varela a sconcertare prima e, quindi, a far tremare Fidel e l’intera corte del castrismo. Su basi assolutamente costituzionali – quelle, per l’appunto, definite dall’articolo 88 della Costituzione varata nel 1976 – il Progetto lanciava, infatti, una raccolta di firme (almeno 10mila) per un referendum teso a modificare la legge suprema dello Stato, introducendo articoli che, senza ambiguità, garantissero una serie di inalienabili diritti (libertà di associazione, di parola, di stampa) riaprendo le porte, in economia, all’iniziativa privata. Era l’ottobre del 1999. In meno di tre anni di molto intesa attività, sfidando minacce e pressioni, Oswaldo Payá ed i suoi riuscirono a raccogliere 11.020 firme (tutte autenticate) che il 10 marzo del 2002 vennero inappuntabilmente consegnate, come richiesto dalla legge, alla Asamblea Nacional del Poder Popular. Tutto regolare. Tutto secondo il dettato della legge. La richiesta di referendum per “iniziativa cittadina” (la prima nella storia di Cuba) era, finalmente, una realtà…

E referendum fu. Non quello richiesto dal Progetto Varela, naturalmente, ma quello che il governo “contro-lanciò” quasi immediatamente in proprio, con una spettacolare marcia del “pueblo combatiente” guidata dallo stesso Fidel Castro lungo il Malecón. Non ci furono (è appena il caso di sottolinearlo) né urne, né schede, né (e quando mai?) voti liberi e segreti. Solo un’altra raccolta di firme – metodicamente condotta da funzionari del governo, casa per casa, ufficio per ufficio, fabbrica per fabbrica, fattoria per fattoria – da “spontaneamente” apporre ad un documento che alla Costituzione chiedeva una sola cosa: di definire “irreversibile”, in saecula saeculorum, la propria natura socialista. Ed i risultati dell’iniziativa furono, non sorprendentemente, plebiscitari.  Lo furono con la chirurgica e grottesca precisione che solo i regimi totalitari hanno la virtù di conseguire. Il 98,9 per cento dei cubani – vale a dire: tutti tranne gli 11.020 traditori che si erano lasciati ammaliare dalle sirene capitaliste del Progetto Varela – firmarono la petizione governativa. Il socialismo cubano divenne (e tuttora rimane) “irreversibile”, più o meno come costituzionalmente “eterna” e “inquebrantable” (infrangibile) era stata fino a qualche anno prima (prima che, per decenza, l’articolo relativo venisse con molta discrezione cancellato) l’amicizia tra Cuba e l’Unione Sovietica.

Meno di un anno dopo, nel marzo del 2003, il governo completò l’opera, arrestando 75 dissidenti e condannandoli  – con processi “express” a porte chiuse durati, in media, mezza giornata – a pene tra i 15 ed i 28 anni di carcere. Tra essi, una quarantina erano stati ufficiali di complemento del piccolo esercito che aveva raccolto le firme del Progetto Varela…

L’ultimo Oswaldo Payá – quello ucciso in un incidente stradale le cui circostanze sono e, e data la trasparenza che regna a Cuba, quasi certamente rimarranno oscure – era quello che restava di quell’impresa tutt’altro che a lieto fine. Un uomo sconfitto. Un uomo solo che, di recente, aveva visto anche i suoi rapporti con la Chiesa cubana, impegnata in un positivo ma controverso dialogo col governo, affievolirsi e guastarsi. Ma di lui resta, comunque, quell’ “irreversibile” che, per suo involontario merito, è ancor oggi scolpito nel marmo della costituzione della Repubblica. Un aggettivo che sottolinea, ovviamente, non la irreversibilità del socialismo, ma l’immobilità imbalsamata d’un regime totalitario, perso in uno stato di dissimulata, permanente putrefazione.

Surreale e ridicolo, quell’ “irreversibile” ci ricorda una cosa:  che, per almeno qualche tempo, Oswaldo Payá Sardiñas ha fatto tremare la gambe a un dittatore. E che la sua è stata, per questo, una vita ben spesa.