Paese che vai, cucina esotica che trovi. Ma non, come si potrebbe pensare, per adattarsi alle tradizioni dei luoghi visitati. La notizia arriva da oltremanica, dove ci si preprara a frequentare, nei prossimi anni, ristoranti indiani che di indiano avranno poco o nulla. Il Regno Unito, infatti, ha deciso di coltivare il curry e le altre spezie entro i propri confini nazionali, senza dunque importare neppure l’aroma di piatti tipici della tradizione orientale, come ad esempio il pollo tikka masala (marinato nello yogurt, aromatico, accompagnato con una salsa di verdure e cosparso di coriandolo), dalle terre che ne vantano l’origine. L’esotico “fai da te” made in UK è destinato a scatenare le ire dei puristi della cucina indiana che si chiedono quanto rimanga, all’estero, dell’identità culinaria di un paese straniero se i suoi pezzi forti possono essere prodotti interamente al di fuori del territorio originario.
A chi è venuta quest’idea di coltivare nei campi delle contee inglesi persino le spezie, rimaste praticamente gli unici ingredienti a dover essere necessariamente importati dai ristoranti indiani? L’intento va ricondotto niente meno che al dipartimento dell’Ambiente, del Cibo e delle Politiche agricole del governo britannico, che ha finanziato uno studio con lo scopo di far fronte in maniera preventiva alla stimata diminuzione delle riserve di cibo alle quali il pianeta andrà incontro entro il 2050, a causa dei cambiamenti climatici e dell’aumento della popolazione. Fare arrivare curcuma, coriandolo, peperoncino e affini dall’Asia e dal Sudamerica – spiegano gli studiosi – ha inoltre un evidente impatto ambientale, che verrebbe largamente ridotto se le stesse spezie nascessero e fossero raccolte in terra inglese. Senza contare – aggiungono – la maggiore affidabilità di ingredienti molto più controllati perché prodotti “in casa”.
Motivazioni legittime che però non fanno che aggravare la condizione dei ristoranti d’importazione, già provati dalle recenti regole britanniche sull’immigrazione. A causa della stretta sui visti, infatti, soltanto il 5 per cento dei cuochi asiatici potrà entrare nel Regno Unito, con il conseguente calo della qualità dei cibi: meno saranno gli chef d’importazione e più la cucina d’Oriente si avvicinerà alla cultura del fast food, che di esotico conserverà soltanto i nomi delle portate. Se a questo aggiungiamo la produzione nazionale persino della miscela di spezie che compongono il curry, condimento per eccellenza delle pietanze indiane, si rischia di perdere buona parte del significato legato al piacere di consumare una cena esotica.
In Gran Bretagna, del resto, i ristoranti indiani sono diffusissimi: se ne contano circa diecimila fra piccoli e grandi, la maggior parte dei quali a portata di tasca, dato che spesso per uscirne sazi e soddisfatti bastano più o meno venti sterline. Una trama capillare e trasversale, grazie anche alla presenza di una folta comunità indiana: a Londra gli inconfondibili piatti dai sapori speziati si possono portare a casa in modalità take away ma vengono gustati anche nei ristoranti di lusso.
Per la coltivazione delle spezie aromatiche deputate a insaporire riso, verdure, spiedini e lenticchie i ricercatori britannici del dipartimento dell’Ambiente hanno individuato il clima più favorevole nelle contee del Kent e del Lincolnshire. Ad oggi ogni settimana sono circa due milioni e mezzo i britannici che si fermano a mangiare nelle popolarissime curry house. Chissà se, con questi cambiamenti alle porte, fra qualche tempo riscuoteranno lo stesso enorme successo. E chissà se anche dalle nostre parti prenderà piede l’idea di una cucina esotica completamente “fatta in casa”.
di Irene Privitera