Il Corriere della Sera del 23 luglio apre la prima pagina con il titolo “Precari otto assunti su dieci”. Un titolo ad effetto per la maggioranza dei lettori, non c’è che dire. Non per San Precario, che – a differenza dei commentatori del Corriere – conosce bene la realtà lavorativa italiana.
Già un anno fa (ma potremmo tornare anche più indietro nel tempo) sui Quaderni di San Precario, analizzando i dati del 2010 sul mercato del lavoro della Provincia di Milano (la più industrializzata), scrivevamo che tra i giovani fra i 16 e i 35 anni, le assunzioni a tempo indeterminato erano meno del 10% (esattamente il 9.7%).
I settori più colpiti dalla precarietà del lavoro erano e sono quelli dei servizi materiali e immateriali: la logistica delle merci e quel 35% del Pil milanese che si occupa di servizi immateriali (informazione, editoria, servizi avanzati alle imprese, tutto l’indotto della cosidetta “industria creativa”, eccetera); non a caso si tratta dei lavoratori meno tutelati a livello sindacale, considerati oggi i “paria” del mondo del lavoro, pur svolgendo professioni ammantate di un illusorio prestigio.
È interessante leggere i commenti sul Corrierone. Di Vico, analizzando i dati di Unioncamere e dello stesso Ministero del Lavoro, si arrampica sugli specchi argomentando che il decreto Fornero – la riforma che vorrebbe, nelle dichiarazioni ufficiali, monitorare e ridurre la precarizzazione – non è ancora entrato in vigore. Peccato che quella stessa legge introduca la piena liberalizzazione dei contratti a termine (per i quali non è più necessaria alcuna giustificazione) e abbia l’intenzione di diffondere il contratto di apprendistato come veicolo per raggiungere il posto fisso. Peccato che i miseri miglioramenti sul versante degli ammortizzatori sociali (il cosiddetto Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego) vengano introdotti solo in un secondo tempo; ma la precarietà da situazione eccezionale (come ancora paradossalmente viene considerata) è già diventata la norma, è la condizione che oggi definisce il rapporto di lavoro. Per questo oggi se ne può parlare liberamente, senza i tabù che la parola stessa evocava qualche anno fa. E i sindacati (la Cgil in primis), finalmente, se ne possono far carico: perché la situazione ormai è segnata.
La questione oggi per noi non è più la denuncia della precarietà, ma piuttosto il “superamento della precarietà”. E tale obiettivo può essere solo raggiunto con una modifica strutturale della politica dei due tempi oggi implicita nella legge Fornero: ovvero, un primo tempo di sacrifici, di precarietà, in attesa di un secondo tempo (arriverà mai?) che dovrebbe garantire un minimo di sicurezza sociale. Il superamento della precarietà oggi può solo avvenire esattamente con una politica di segno opposto.
Prima un provvedimento che garantisca un reddito minimo incondizionato e solo dopo una discussione sulla riforma di lavoro. Invece che flex-security, noi chiediamo secur-flexibility. Non più diritto al lavoro, ma diritto alla scelta del lavoro. Che ne pensano al Corrierone?
E non ci si venga a dire che le risorse non ci sono: come abbiamo dimostrato nel n. 1 de Quaderni di San Precario, per garantire un reddito minimo di 600 euro mensili (pari a 7200 euro l’anno) in modo incondizionato a chi ha un reddito inferiore basterebbero poco meno di 15 miliardi di euro, una cifra minore di quella che il ministro della Difesa si è impegnato a spendere per l’acquisto di 131 caccia F-35. Una spesa folle, a meno che qualcuno non pensi che dalla crisi si possa uscire sulle ali di un caccia di ultima generazione.