Crisi economica, debito, spread, vendere; trasporti, energia, patrimonio pubblico, terreni agricoli, spiagge, gestione dei rifiuti, cedere tutto al profitto privato, anche l’acqua. Viene da chiedersi se questo esercizio di tecnica tanto in voga serva a svuotare lo Stato di ogni sua funzione piuttosto che a salvarlo e, ancora, se a fondamento della nostra Repubblica lavoro e volontà popolare siano stati sostituiti dal liberissimo mercato. Lo Stato moderno è nato anche con la funzione di imporre dei limiti alle libertà economiche dei singoli in difesa della collettività dei consociati, e allora, più liberi sono i mercati più lo Stato è minimo.
Una volta in crisi la tradizionale domanda di prodotti, il mercato ha aggredito i bisogni essenziali e questi, il più delle volte, coincidono con diritti fondamentali; se il mercato sottrae spazio ai diritti allora lo Stato deve indietreggiare. Gli Stati europei hanno rinunciato alle proprie monete, oggi gli si chiede di cedere la sovranità sul debito ma, mai come adesso, sono evidenti i problemi derivanti dal fatto che ciò sia avvenuto ai fini della creazione di un’Europa economica e di un mercato unico piuttosto che di un’Europa politica e di una democrazia europea, lasciati sullo sfondo ad attendere come un orizzonte che ad ogni passo in avanti indietreggia precisamente di un passo.
Dall’Europa degli Stati ai Comuni, da Monti ad Alemanno, date le premesse, poco sorprende che il sindaco di Roma e la sua giunta siano strenuamente impegnati a cedere ai privati un ulteriore 21% del pacchetto azionario di Acea. Lo strumento attraverso cui avviare la cessione è la delibera n. 32/2012.
Il 9 maggio 2012, lo stesso sindaco aveva provato ad esplicitare motivi ed obbiettivi di questa operazione in una lettera indirizzata a consiglieri capitolini, ministri e presidenti di Provincia e Regione, non ai cittadini; si rappresenta così una politica che parla a sé stessa e alle élites e che, messe avanti le esigenze della crisi economica, non sente più il dovere di spiegare le proprie scelte a coloro che direttamente ne subiranno le conseguenze.
Il testo della lettera è pubblicato sul blog del sindaco, al primo punto viene elencato un preciso vincolo normativo: «l’art. 4 del d.l. n. 138/2011 prevede che gli enti pubblici debbano ridurre la propria partecipazione nelle società quotate operanti nei servizi pubblici locali al 40% entro il 30 giugno 2013 e al 30% entro il 31 dicembre 2015».
Bisogna vendere Acea, dunque, lo dice la legge, o meglio, lo diceva, perché, rispetto all’obbligo citato dal sindaco di Roma, la smentita è arrivata con la sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 2012, n. 199: l’art. 4 del d.l. n. 138/2011, così come ripreso e modificato dai successivi interventi del governo Monti nel decreto «salva Italia», è stato dichiarato incostituzionale. La norma, infatti, riproduce l’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008, abrogato dal referendum dello scorso giugno il cui intento era proprio escludere l’applicazione delle norme che limitano le ipotesi di affidamento diretto e gestione in house di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, compreso – e non solo – il servizio idrico. Violato, dunque, l’art. 75 Cost.
Lo stesso testo della sentenza racconta bene la presa in giro del governo rispetto alla volontà espressa da 27.000.000 di cittadini. Si legge infatti: «A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23 bisdel d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali (…) che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, (…) ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23 bis». Tutto ciò in stridente contrasto con l’integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa espressamente prevista dall’impalcatura costituzionale. E allora ritorno un attimo alle premesse: il governo – su questo il governo Monti poco si discosta dall’era Berlusconi – sposa il libero mercato e lo pone al di sopra dei valori costituzionali, dei diritti, della democrazia. Il neoliberismo ha portato la crisi, bisogna affidarsi al neoliberismo per risolverla, sembra questo il mantra indiscutibile a fronte del quale i limiti imposti dallo Stato e la tutela costituzionale dei diritti devono farsi da parte. Non c’è volontà popolare che tenga.
E invece, a differenza di quanto sostenuto da Alemanno nella sua epistola ai romani – ma solo quelli che contano -, i giudici chiamati a difendere le prerogative costituzionali e non quelle del mercato non hanno potuto che dichiarare decaduto qualsiasi obbligo di privatizzazione. La decisione, quindi, viene riportata sul piano della politica attuata dalle singole amministrazioni comunali senza possibilità di nascondere dietro gli obblighi imposti dallo Stato centrale una scelta manifestamente impopolare.
La giunta capitolina sembrava essersi assunta questa responsabilità; non c’è l’obbligo ma rimane ai Comuni la facoltà di privatizzare, ebbene, la delibera 32/2012 sarà votata: questo il succo delle dichiarazioni della maggioranza dopo la sentenza della Consulta. Per rispettare le scadenze la maggioranza capitolina aveva attuato ogni genere di forzatura. E proprio in merito a tali forzature è arrivato il definitivo stop alla vendita di Acea. Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso presentato dall’opposizione contro l’illegittimo accantonamento di 23.000 ordini del giorno al fine di accorciare i tempi di votazione: «sotto il profilo della legittimazione ad agire – recita il testo della sentenza – rientra nel diritto-potere del consigliere la pretesa di vedere trattato l’ordine del giorno secondo la scansione indicata dall’art. 67 dello Statuto comunale».
Dunque, se privatizzazione deve essere, la maggioranza è chiamata non solo ad assumere la responsabilità di quella che torna ad essere una decisione politica e non un obbligo, ma – risulterà pure strano ad alcuni consiglieri, ex giovani erbe di ben altro fascio – al rispetto delle regole democratiche di funzionamento dell’organo consiliare. Due le strade: o si accantona la delibera 32 o si discutono uno ad uno i 23.000 ordini del giorno, ma in questo secondo caso difficilmente sarà possibile giungere all’approvazione entro il 30 agosto. Scacco matto!