I risultati dell’esperimento, denominato “Eifex”, incoraggiano. Ma, al tempo stesso, ripropongono interrogativi sulle conseguenze per gli ecosistemi marini di un intervento considerato da molti troppo invasivo e pericoloso. Il geochimico Buesseler: “Proprio il fatto che non conosciamo ancora tutte le risposte deve spingerci a proseguire gli studi”
Specchi che orbitano nello spazio per deviare i raggi solari. Aerei che disperdono gas nell’atmosfera per raffreddare il pianeta. Navi che fertilizzano gli oceani per far proliferare microalghe capaci di assorbire anidride carbonica. Sembrano progetti da “dottor stranamore”, ma molti scienziati, a fronte degli scarsi progressi compiuti dai governi per contrastare il riscaldamento globale, iniziano a prenderli seriamente in considerazione. È la nuova frontiera della geoingegneria, l’intervento artificiale dell’uomo sul clima. L’ultimo concreto esempio è una sperimentazione europea realizzata nell’oceano Artico con aspettative ambiziose: sequestrare per secoli l’anidride carbonica sui fondali marini con l’aiuto di microalghe e polvere di ferro.
I risultati dell’esperimento, denominato “Eifex” – European iron fertilization experiment – dopo la pubblicazione sulla prestigiosa rivista “Nature” appaiono incoraggianti. Ma, al tempo stesso, ripropongono vecchi interrogativi sulle conseguenze per gli ecosistemi marini di un intervento considerato da molti troppo invasivo e pericoloso. Il team di studiosi, coordinato dall’Alfred Wegener Institute for polar and marine research, in Germania, con la partecipazione italiana della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, ha cosparso un’area oceanica di 167 chilometri quadrati con tonnellate di solfato di ferro, inducendo la “fioritura” del fitoplancton, insieme di organismi unicellulari alla base della catena alimentare marina. Tracciando i movimenti del plancton, i ricercatori hanno stimato che per ogni atomo di ferro distribuito nell’oceano quasi 13.000 atomi di carbonio erano stati sequestrati dall’atmosfera attraverso il processo di fotosintesi delle microalghe. “Almeno la metà dei gusci di carbonio del fitoplancton dopo la morte si è depositata a più di 1000 metri di profondità con il proprio carico di carbonio, sottratto all’atmosfera”, afferma su Nature Victor Smetacek, biologo marino a capo del team di ricerca.
L’idea di stimolare deliberatamente la crescita del plancton su larga scala è controversa. “Esistono ancora molti buchi nelle conoscenze scientifiche riguardanti questo approccio”, si legge nelle stesse pagine di Nature, nell’articolo di commento a quello principale che illustra i risultati dell’esperimento. A sostegno di questa affermazione, la rivista britannica ricorda come la Convenzione di Londra – un trattato internazionale sull’inquinamento degli oceani – nel 2007 abbia stabilito che “la fertilizzazione degli oceani non appare giustificata”. Lo stesso leader del gruppo di studio non nasconde le difficoltà e i dubbi che suscita la sua ricerca: “La dimostrazione che il trattamento sembra funzionare, sebbene sia promettente, non è tuttavia sufficiente a evitare rischi di effetti collaterali potenzialmente dannosi per gli ecosistemi marini”. Il timore di molti scienziati è, infatti, che un intervento di questo tipo su larga scala possa aumentare l’acidificazione degli oceani, portare alla proliferazione di alghe tossiche o diminuire i livelli dell’ossigeno nelle acque. “Non sappiamo ancora cosa potrebbe accadere alle specie che popolano gli oceani, qualora continuassimo ad aggiungere artificialmente ferro – ammette Smetacek parlando della sua ricerca -. Per questo occorre prima studiare la fioritura naturale del fitoplancton attraverso ulteriori esperimenti a lungo termine”. Altri esperti sono, però, contrari ad accantonare questo filone di ricerca. Come Ken Buesseler, geochimico al Woods hole oceanographic institution, in Massachusetts, che, sempre attraverso le pagine di Nature, esorta i colleghi ad andare avanti: “proprio il fatto che non conosciamo ancora tutte le risposte deve spingerci a proseguire gli studi”.
Intanto le emissioni non accennano a diminuire. Proprio in questi giorni il rapporto annuale del Joint commission center della Commissione europea rende noto che il 2011 è stato un anno record, con 34 miliardi di tonnellate di CO2 rilasciate in atmosfera. L’impennata è legata all’effetto traino della Cina, le cui emissioni pro-capite hanno ormai eguagliato i livelli europei.