Basta poco, la conferma di una notizia nera come la polvere di carbone che segna i viali che portano alla fabbrica, e scoppia l’ira degli operai. “Fermiamo la città”. In pochi minuti si radunano in ottomila, escono dai capannoni, bloccano l’Appia, le strade che portano al centro, quelle che collegano Taranto con Bari e Brindisi. Si muovono in corteo fino al ponte girevole. Bloccano pure quello per tutto il giorno fino a notte. E’ sciopero a oltranza. Per la prima volta nella sua storia, l’Italsider, la fabbrica che a Taranto significa pane per 20mila famiglie, e veleni, malattie e morte per la città, rischia il collasso come un gigante dai piedi d’argilla.

E’ successo quello che era prevedibile nelle ultime settimane, impensabile fino a qualche anno fa. Emilio Riva, l’ottantaseienne re italiano dell’acciaio, suo figlio Nicola e una schiera di dirigenti, manager e responsabili dell’Ilva sono agli arresti domiciliari. Sei aree vitali per la produzione dell’acciaio sotto sequestro. Ferme, bloccate, non utilizzabili. “Non può essere consentita una politica imprenditoriale che punta alla massimizzazione del risparmio sulle spese per le performance ambientali del siderurgico”, scrive il gip Patrizia Todisco nel suo provvedimento.

L’Ilva e i Riva hanno accumulato profitti enormi negli anni passati senza preoccuparsi dei veleni che i fumi e le polveri diffondevano nell’aria ammorbando la città. “E io, con la mia busta paga da 1.200 euro, con i turni massacrati davanti a un altoforno, in una fabbrica dove è più facile morire che vivere, sarei il nemico di Taranto, della mia città? Io sarei il responsabile dei morti di tumore, delle malattie? Ma lo sai dove vivo con i miei figli, a Tamburi. Vai a vedere”. Marco G., operaio addetto agli altoforni è esasperato come i suoi compagni e ci fornisce una sintesi drammatica ma perfetta del rapporto tra l’Ilva e la città. Gli anni in cui l’osmosi tra i caschi gialli e Taranto era totale, appartengono alla “preistoria”, ora i tarantini vedono “la fabbrica” come un nemico che ti fa ammalare e morire, violenta la tua terra e il tuo mare e ti ruba il futuro. E basta andare a Tamburi e vedere le case annerite dal fumo, le panchine scure di povere di carbone, i pochi spazi verdi per i bambini ingrigite dall’aria malata, per capire tante cose. Lasciamo stare le lunghe perizie che sono alla base dell’inchiesta e delle dolorose decisioni della magistratura, fermiamoci su un dato solo. Terribile.

A Tamburi, hanno calcolato gli esperti, i bambini hanno i polmoni incatramati come un adulto che fumi 6-7 sigarette al giorno, tanta è la concentrazione di benzopirene nell’aria. Così a San Paolo, l’altro quartiere cresciuto a ridosso dell’Ilva. “Chiedano conto a Riva e compagni, spieghino loro come oggi sono aumentati i livelli di produttività dello stabilimento. Più in alto degli anni passati quando in fabbrica eravamo in 23mila. La ricetta è semplice: tecnologia spinta, macchinari al massimo e sfruttamento degli operai”. Dice così il sindacalista Donato Stefanelli, segretario della Fiom. E con lui è d’accordo l’arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro che ieri ha denunciato “gli anni ed anni di omissioni e i danni subiti dalla gente”. Gli operai ieri non hanno fatto come il 30 marzo, quando la rabbia si concentrò contro i magistrati che indagavano sull’Ilva. “Quello che è accaduto – riconosce l’arcivescovo – non poteva essere ignorato dalla magistratura, alla quale non spetta il compito di negoziare soluzioni, ma quello di applicare le leggi”.

I fumi che hanno ammorbato l’aria, i materiali ferrosi che viaggiavano su nastri trasportatori scoperti (sono stati adeguati solo pochi anni fa), i parchi minerali, un’area grande come decine di campi da calcio dove vengono stoccati i minerali necessari alla produzione, proprio a ridosso del quartiere Tamburi. Insomma, il cancro dell’Ilva. Taranto brucia , città disperata e divisa, schiacciata tra la prospettiva di un disastro sociale, migliaia di lavoratori in mezzo a una strada, e i veleni che la uccidono lentamente. “E’ come se oggi ci presentassero il conto”, dice un vecchio operaio. Il conto degli anni d’oro dell’Ilva, quando i profitti volavano. 2005, 8 milioni di tonnellate di acciaio per un impianto che al massimo delle sue capacità poteva arrivare a 10. Il record per i Riva che da Taranto pretendevano consenso e silenzio.

La ricetta, anche allora, ce la spiegò un operaio: “Acceleratore al massimo sugli impianti, operai appena formati sbattuti in produzione e tempi di lavoro stressanti”. Già, gli operai. Quelli dell’Ilva sono 12mila, si toccano i 20mila con l’indotto e gli appalti esterni e sono giovani. L’80 per cento ha un’età tra i 20 e i 39 anni. “Se perdo questo lavoro non mi resta che andare a rubare”, è la frase che si sente di più nei capannelli di operai. Che non si accontentano più delle promesse, dei vertici ministeriali che assicurano bonifiche che si aspettano da anni. Oggi alle sette del mattino, si riuniranno tutti nella loro fabbrica. “Per difendere la vita mia e quella dei miei figli”, ci dice Marco G. E per Taranto sarà un’altra giornata di passione.

da Il Fatto Quotidiano del 27 luglio 2012

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