“C’è una società che non è ancora matura per apprezzare totalmente la figura femminile – dice lo stilista – ma credo che stiamo crescendo”. Fondamentali nel suo percorso artistico e lavorativo, Barbara Hulanicki, Chanel e Maripol: "Tanti sono gli esempi di quante si sono distinte per audacia, pensiero e creatività: spesso devono lottare, rischiando più degli uomini"
Nella moda, come in ogni altra forma d’espressione in cui la comunicazione gioca un ruolo fondamentale, vince chi ha idee e coraggio per innovare. E lui, Elio Fiorucci, è senza dubbio uno dei più grandi innovatori italiani. Una storia, la sua, nella quale le donne hanno avuto un ruolo importante, quasi demiurgico. Nel suo ufficio di viale Vittorio Veneto a Milano, ci accoglie con un blazer nero e dei jeans volutamente sfuggiti a lasciare intravedere calzini rosso fuoco e ci racconta di come la sua moda, che è anche arte e spettacolo, abbia saputo conquistare l’Italia e il mondo ancora prima di grandi nomi come Armani. Tutto inizia nel 1963, anno in cui Elio Fiorucci apre il suo primo negozio, in Galleria Passarella a Milano. Passano 27 anni e nel 199o, Fiorucci vende il suo marchio alla società giapponese Edwin International, ma la storia continua con “Love Therapy”: collezioni create da giovani designer. Sempre con la capacità unica di inventare, riconoscere il nuovo e rendendolo democratico.
Come nasce l’idea del primo negozio milanese?
In quegli anni era in atto una rivoluzione. Ma non tanto una rivoluzione politica, piuttosto una rivoluzione di costume. Dopo la grande paura della guerra e della bomba atomica, i giovani avevano cominciato a ribellarsi, a voler scacciare lo spettro del male che gli uomini stavano facendo al pianeta. Ebbi la fortuna di andare a Londra e di vedere da vicino quel fermento. Vidi la Carnaby Street del tempo, ascoltai la musica dei Beatles, conobbi personaggi fantastici, come Barbara Hulanicki. Figlia di un ambasciatore polacco in Palestina, durante la guerra scappò a Londra dove aprì Biba, il primo vero “concept store”: non più un grande magazzino “tutto per tutti”, ma un negozio che si rivolgeva ai giovani e alle donne, proponendo loro non solo un modo di vestire, ma anche e soprattutto un modo di vivere. Quel negozio era l’emblema della rivoluzione in atto e fu la mia ispirazione.
Una donna, quindi, dietro l’idea del primo negozio Fiorucci…
Sì, nella moda ci sono state tante donne straordinarie, partendo da Chanel, a modo suo una vera rivoluzionaria. Tanti sono gli esempi delle donne che si sono distinte per la loro audacia, per il loro pensiero, per la loro creatività: donne coraggiose, come Vivienne Westwood, Maripol, la stessa Miuccia Prada. Donne che spesso devono lottare, rischiando più degli uomini.
Devo dire che questa cosa del “categorizzare” non mi piace. Io credo che sia un modo di pensare superato. C’è una società che non è ancora matura per apprezzare totalmente la figura femminile, è vero, ma credo sia una cosa che stiamo superando: stiamo crescendo.
Torniamo ai suoi negozi: dopo quello di Milano lei ne aprì, in rapida successione, moltissimi altri e a New York ebbe modo di frequentare la Factory e Andy Warhol. “Andato da Fiorucci, è proprio un luogo divertente. E’ tutto ciò che ho sempre voluto…”: a parlare così, nei diari trascritti da Hackett, è proprio Warhol. Che tipo era?
Era un tipo taciturno, ma con una capacità impressionante di cogliere il nuovo. Una volta gli domandai come mai i suoi quadri fossero sempre così moderni e lui mi disse che era perché utilizzava i colori dei neon di New York: non a caso la mazzetta di colori fluorescenti Pantone, oggi, si chiama “Neon”. I colori fluorescenti sono quelli che amo: quando si parla di pop è come dire la fine del grigio, del nero, del marroncino e l’arrivo del colore. Allegro, democratico, portatore di voglia di stare bene.
Dovrebbe dare un’occhiata al nuovo video dei Blur, per il singolo “The puritan”: ci rivedrebbe questa storia, modernissima… Come mai per il logo Fiorucci scelse due angioletti (rielaborati da Italo Lupi)?
La Pop art portò fuori dai supermercati la Campbell Soup, dimostrando che si poteva fare arte con una scatola di zuppa: quella di Andy Warhol era mitologia della contemporaneità. Allo stesso modo, con i miei angioletti, la spiritualità diventava “pop” e usciva dalle chiese per fare la sua comparsa in t-shirt, shopping bag, negozi…
Nel 1977 lei organizzò l’opening dello Studio 54: come ricorda quell’esperienza? (si alza per mostrarmi un libro illustrato – Maripol. Little red rinding hood – dove ci sono immagini fotografiche straordinarie di quelle sere, ndr)
Fu di nuovo una donna a convincermi, Maripol, che era l’art director del mio negozio newyorkese. Mi chiese se volevo sponsorizzare questa discoteca, aperta da due ragazzi di Long Island in un ex studio televisivo e accettai. Qualche settimana dopo, in occasione di una festa per celebrare il mio negozio, si esibì per la prima volta Madonna