Lunghi capelli bianchi legati a coda di cavallo, anelli, collane, pizzetto bianco, faccia vissuta, irresistibilmente simpatico. Dove stava lui si creava sempre un capannello di gente che rideva e si divertiva ad ascoltare i suoi racconti, nel suo italiano biascicato per l’incancellabile pronuncia inglese. Nei pomeriggi musicali della sala teatro trascinava il suo pubblico cantando blues con voce roca alla Joe Cocker.
Come per la gran parte delle storie sentite in carcere, non andiamo a sindacare la veridicità di quanto ci raccontava e si raccontava su di lui: accettiamo e riportiamo serenamente, come si trattasse di belle favole.
Pare che in Australia avesse studiato e, fino a una certa età, facesse l’ingegnere. Professione troppo arida, che presto lasciò per andarsene a Londra. Lì aprì un locale dove suonavano i più importanti gruppi emergenti del mitico rock inglese anni ’70.
Spinto da un irresistibile stimolo alla libertà, mollò tutto e cominciò a girare il mondo in camper. È stato dappertutto, e dovunque ha lasciato ricordi, affetti, un segno della sua presenza. Un giorno venne in classe e, guardando divertito la carta del mondo affissa alla parete, cominciò a scandire in maniera ritmata, come in una canzone rap: “My wife”, “My son”, indicando i paesi più svariati: una moglie di qua, un figlio di là. E ancora, guardando soprattutto nelle zone entro i tropici: “Thirty degree, thirty degree”, alla ricerca di posti dove fa sempre trenta gradi.
Mi ricordava un tipo che avevo conosciuto in viaggio, in quegli anni: un signore inglese che aveva un motto per sintetizzare la propria filosofia di vita: “Only shorts, no shoes”. Voleva vestire sempre in pantaloncini e senza scarpe, in ciabatte. Scappato dalla piovosa Inghilterra oltre vent’anni prima, inseguiva posti dove il tempo è sempre buono, la temperatura mite. Organizzava di conseguenza le sue attività e le sue vacanze alternando tra l’emisfero boreale e quello australe, spostandosi quando arrivava l’inverno verso una continua, ininterrotta estate. Per inciso, da lui ebbi la conferma che il clima del nostro Mediterraneo è tra i migliori al mondo, visto che da maggio a ottobre gestiva un ristorantino in un isola greca delle Cicladi.
Così Willy viaggiava tra i continenti, intraprendendo sempre nuove attività e nuovi commerci. In Brasile aveva trovato delle amache a buon mercato e ne acquistò a migliaia. Per imbarcarle all’aeroporto considerò che gli costava di più un apposito cargo che il sovrapprezzo del bagaglio eccedente i normali venti chili che ogni viaggiatore può portare con sé. Comprò quindi un gran numero di valigie e ci pressò dentro le sue amache, che portò poi a vendere in un paese dove potette realizzare discreti guadagni. Lo stesso fece con gli stereo, che imbarcò dal Giappone all’India quando lì erano ancora sconosciuti. E un’intera collezione di Playboy che portò in un paese fondamentalista. Si adeguava alle richieste del mercato, e quando giunse in Italia trovò che la merce che “tirava” di più era la cocaina. Organizzò il suo traffico ma giustamente fu scoperto.
La vicenda del suo arresto in un Hotel di Roma vicino al Colosseo ha del rocambolesco. Pare che gli investigatori, quando si presentarono, furono fuorviati e andarono a perquisire una stanza sbagliata. Lui ostentava serenità; non risultando nulla di sospetto, gli agenti si scusarono e lui, con i suoi modi gentili, li accompagnò garbatamente all’uscita. Ma quando andò a riconsegnare la chiave, l’addetto della reception disse ad alta voce che la sua stanza non era la 119, ma la 120. I gendarmi capirono tutto, tornarono su a perquisire la camera giusta; trovarono una gran quantità di droga, lo presero molto meno cerimoniosamente e lo portarono via.
Chiuso in carcere, dopo qualche anno in giro per giudiziari alla fine arrivò da noi a Rebibbia. Si manteneva dando lezioni di inglese in cambio di vino, il buon vino italiano che, da buongustaio amante dei piaceri della vita, ha sempre gradito. Ero giovane, e devo ammettere che mi sentii lusingato quando mi disse che avevo un “very good smile”, che sorridevo sempre e quindi non solo avevo un buon carattere ma evidentemente mi ero organizzato bene la vita con un lavoro che facevo con piacere.
Lo vidi l’ultima volta lungo il viale alberato che esce dalla Casa di reclusione di Rebibbia: indossava un elegante completo grigio chiaro con cravatta e trascinava la sua valigia con rotelle come se fosse un viaggiatore di business class. Verso chissà quale avventura.