Da uomo di fiducia di Raul Gardini e da alto dirigente della Calcestruzzi interviene personalmente su un’impresa per “indurla a ritirarsi dalla partecipazione della gara”. Sul piatto c’è l’appalto per la strada provinciale San Mauro-Castelverde-Gangi. Di più: scende a Roma per la spartizione dei lavori della tonnara di Capo Granitola (Trapani). Tra le società presenti anche la Reale, impresa riconducibile a Totò Riina attraverso “prestanomi”.

Insomma Lorenzo Panzavolta, ravennate, classe ’22, tra gli anni Ottanta e Novanta, è uno dei protagonisti nella spartizione illecita degli appalti siciliani, mettendo “il proprio ruolo al servizio degli interessi mafiosi”. Lo scrive la Corte d’appello di Palermo nel 2008, lo ribadisce oggi la seconda sezione penale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito che respinge così la revisione del processo chiesta dallo stesso ex dirigente della Ferruzzi.

Il documento depositato il 26 luglio scorso timbra con certificazione storica un dato acquisito già in alcune sentenze: una delle più grandi industrie italiane, la Ferruzzi di Gardini, non solo ebbe rapporti con Cosa nostra, ma soprattutto ne favorì gli interessi.

Ma per una verità acquisita, le parole dell’alta Corte riaprono una partita (siciliana ma non solo) archiviata velocemente e che per molto tempo è stata descritta come la chiave di volta per interpretare gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel mirino il dossier “mafia-appalti” depositato (per la sua prima stesura) nel 1991 dal Ros del generale Mario Mori. Informativa esplosiva, liquidata troppo in fretta e quindi svaporata tra le carte della Trattativa, soprattutto dopo che l’ufficiale dei carabinieri è stato coinvolto e indagato nell’inchiesta.

Eppure quelli (1985-1991) sono anni ruggenti. Da nord a sud. E se a Milano, prima la Duomo connection e poi Mani Pulite danno la stura agli intrecci tra mafia-impresa-politica, a Palermo Salvatore Riina traghetta la sua organizzazione “da una fase parassitaria a una fase simbiotica con la grande imprenditoria”. I giudici d’Appello fotografano così l’evoluzione voluta dal cda di Corleone.

Siamo nel 1988. Un anno prima 360 presunti mafiosi vengono condannati a complessivi 2.665 anni di carcere. E’ il primo grado del maxi-processo che mette in archivio l’epopea di una mafia ancora rudimentale. Parassitaria appunto e che entra nel mondo dell’edilizia attraverso i subappalti o il pizzo. Dalla metà degli Ottanta cambia tutto. “La mafia – scrivono i giudici di Caltanisetta – inizia a a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti a imprese a lei vicine”. Non solo: “Cosa Nostra, si inserisce a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti, applicando il pizzo sul pizzo, cioè decurtando le tangenti dirette ai politici dello 0,80%”.

In quel momento la Sicilia viene invasa dai finanziamenti pubblici. C’è da spartirsi una bella torta. Ai nastri di partenza si presentano “due organizzazioni criminali”. La prima è Cosa nostra e il suo referente è Angelo Siino. La seconda è composta da un comitato d’affari che tiene dentro imprenditori e politici. In questo caso a far da tessitore e da ufficiale pagatore di tangenti è l’imprenditore Filippo Salamone e questo, scrivono i giudici d’Appello, grazie “alla sua linea diretta con il presidente della Regione Nicolosi e ai suoi legami con Calogero Mannino”. Si tratta dei due politici che, stando alla ricostruzione della corte, in quel momento contano di più. Su uno di loro, Mannino, pesa oggi la richiesta di rinvio a giudizio nell’ambito dell’indagine palermitana sulla trattativa tra Stato e mafia.

Totò Riina, però, non si accontenta. Il timore che il maxi vada a sentenza definitiva (come sarà) è alto. I dubbi sui vecchi referenti della Dc in poco tempo si trasformano in certezze. Toto u’ Curtu accelera. Primo risultato: Angelo Siino non va più bene. Si attiva Brusca. Obiettivo: trovare un nuovo referente e portare a compimento la fusione tra Cosa nostra, grande impresa e politica. Tradotto: il terzo livello. Quello che Tommaso Buscetta non volle svelare. E che Giovanni Falcone aveva in testa di raccontare proprio agganciando la partita degli appalti. L’informativa del Ros, dunque, appare decisiva. Falcone lo dice direttamente e lo fa in un incontro pubblico pochi giorni dopo il deposito della prima informativa: “Bisogna cambiare il modo di investigare”.

Se Riina fa da regista occulto, il manovratore si chiama Pino Lipari, uomo ombra del boss. Sarà sua l’idea di allargare il tavolino (definizione per indicare la spartizione dei lavori pubblici) anche alle holding del nord-Italia. Quelle che i soldi li fanno girare sul serio. Viene varato quindi un triumvirato degli appalti: c’è Salamone che prende il posto di Siino. C’è l’ingegnere Giovanni Bini della Calcestruzzi che all’epoca “faceva capo al gruppo ravennate guidato da Panzavolta”. Ma soprattutto spunta il nome di Antonino Buscemi “imprenditore mafioso della famiglia di Passo Rigano”, già in rapporti d’affari con il gruppo di Gardini. Il nome di Buscemi, anni dopo, ritornerà in un appunto di Vito Ciancimino che affianca il colletto bianco di Cosa nostra al nome di Silvio Berlusconi per aver finanziato l’affare di Milano 2.

Nei rapporti con Cosa nostra, dunque, Lorenzo Panzavolta non si sottrae e anzi con Buscemi i contatti diventano assidui. Risultato: la Calcestruzzi partecipa alla maxi-speculazione di Pizzo Sella, la magnifica montagna che sovrasta il golfo di Mondello. Uno scempio edilizio che ancora resiste e sul quale ci mise le mani la sorella di Michele Greco detto il Papa. Nel’affare entra la Calcestruzzi che, a detta dei giudici, in quell’operazione non vede una speculazione ma “un modo per favorire Cosa nostra”. Un intervento voluto dallo stesso Buscemi.

Ora alla base della richiesta di revisione del procedimento da parte di Panzavolta c’è un punto: all’epoca non era ad di Calcestruzzi ma semplice consigliere delegato. Un dato che viene definito irrilevante, visto che lo stesso Panzavolta, diventato amministratore delegato, “si era limitato a continuare l’investimento già intrapreso”.

L’uomo della Ferruzzi, condannato definitivamente a sei anni e sei mesi, sarà arrestato nel 1997. Il suo nome compare già nei verbali di Tangentopoli. Due anni prima, nel 1991, scattano le manette per Angelo Siino che inizia a collaborare. E’ la prima tranche dell’indagine mafia e appalti. Siino fa il nome di Gardini e della Ferruzzi. Due anni dopo, il 23 luglio 1993, Gardini si suicida nella sua casa milanese. Panzavolta rivelerà una telefonata ricevuta dal patron poche settimane prima. Motivo: il coinvolgimento in Mani Pulite. I giudici nisseni però non ci credono e ipotizzano che quel contatto aveva come scopo capire gli sviluppi dell’inchiesta palermitana. Ecco la lettura che nel 2000 ne diede Siino, intervistato dal Corriere della Sera. “Credo che abbia avuto paura per le pressioni sempre più insistenti del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina (…) Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall’orbita mafiosa in cui era entrato. (…) So di preciso che quando si trattò di assegnare l’appalto per la costruzione della strada San Mauro-Ganci, Nino Buscemi mi disse che il 60 per cento dei lavori doveva essere assegnato alle imprese del Gruppo Ferruzzi. E Lima mi ordinò di eseguire”. 

Ma prima di Gardini, muore Salvo Lima: ucciso a Palermo nel marzo 1992. E’ il segnale: Cosa nostra cambia referenti politici. Saranno i socialisti di Bettino Craxi, ai quali lo stesso Gardini era da sempre legato. Insomma la sentenza della Cassazione su Lorenzo Panzavolta scrive l’ultima puntata del dossier su mafia e appalti. Riportando in primo piano il rapporto tra le stragi del ’92-’93 e i contatti di Cosa nostra con le grandi imprese del nord Italia.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti

B.COME BASTA!

di Marco Travaglio 14€ Acquista
Articolo Precedente

Sei nero? Non puoi sposarti

next
Articolo Successivo

Torre del Greco, morta direttrice Poste ferita da dipendente

next