Sit-in per la bonifica dell'Ilva di Taranto

Quando Christa Wolf mise in bocca a Cassandra queste parole (tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere) lo fece pensando alla guerra. Le donne dello Scamandro, lontane dal palazzo reale dove la natura era bandita, e con essa la vita, sapevano che era necessario, pena la fine dell’umanità, “combattere il male prima, quando ancora non si chiama guerra”. Una visione, questa, mai abbastanza valorizzata e praticata nella quale, negata la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, non si nega invece il motivo del conflitto, ma lo si pone al centro, affinché lo si riconosca, lo si dipani e quindi si costruisca l’alternativa.

Uso questa intuizione preziosa della studiosa tedesca per provare a ragionare sul drammatico caso di Taranto, città che da decenni vive l’atroce contrapposizione tra diritto al lavoro e diritto alla salute, identico dilemma vissuto anche in altri luoghi della penisola, (solo per citare i casi più noti nel tempo): l’Acna di Cengio, le acciaierie di Cornigliano, l’amianto di Casale Monferrato, il progetto Dal Molin, l’alta velocità in Val Susa, il terzo valico in Liguria.

In ognuno di questi casi lavorare ha significato (e significa) contemporaneamente garantirsi un salario ma anche avvelenarsi, e avvelenare la comunità circostante: parlo della diossina all’Acna, delle polveri cancerogene a Genova, dell’asbestosi a Casale, dell’avvelenamento delle falde acquifere a Vicenza, di nuovo dell’amianto per la Val Susa, delle polveri sottili per il terzo valico, tralasciando per brevità molte altre negatività per la salute e i gravi danni ambientali irreversibili in tutte queste situazioni.

Al contrario di altri paesi europei, nei quali lavorare sì, ma non a costo di morire e far morire del medesimo lavoro malsano che sfama, è diventata una priorità senza ombre da molti anni, in Italia siamo ancora alla tragedia della, (in apparenza), insanabile contraddizione tra lavoro e salute, quindi tra lavoro e vita. La parola ‘riconversione’ è ancora un tabù.

Non è un mistero che, oltre e accanto alla scellerata e cinica politica industriale di molti imprenditori, ai quali non importa nulla della salute di chi lavora, ci sono state anche responsabilità sindacali nel non avere in modo limpido e puntuale costruito una cultura del lavoro e dei diritti che connettesse indissolubilmente, senza contrapporre, lavoro e salute: a Genova, per esempio, è noto che negli anni ’80 c’era tensione tra ecologisti e settori sindacali sulla questione delle acciaierie di Cornigliano.
Il lavoro non si tocca, dicevano, l’ambiente viene dopo. Rigettare il discorso ecologista contrapponendo il diritto al lavoro a qualunque altra priorità arriva a dei punti di tragico paradosso: recentemente un sindacalista genovese ha dichiarato, parlando di Taranto, che anche la cioccolata in dosi massicce fa male, minimizzando così la tragedia di vivere immersi nelle polveri nere respirate ogni giorno. Il lavoro, qualunque lavoro e a tutti i costi, la monetizzazione della salute: una forma grottesca di mors tua vita mea, che non vede come sia follia chiudere gli occhi davanti alla inciviltà di una produzione industriale non sicura e malsana.

Come non fare un parallelo con la miope e perversa concezione della vita fine a se stessa e senza qualità? Penso ai temi etici quali l’autodeterminazione nelle scelte riproduttive e di fine vita, che sono state le donne a porre al centro stimolando una riflessione sui limiti e la qualità di quella che dai fondamentalisti di ogni religione viene pensata come vita purchessia, senza definizioni.

‘Vita’ quella di Eluana Englaro, ‘vita’ quella appena concepita, da contrapporre alla donna che la porta in grembo, con la creazione della soggettività dell’embrione portatore di diritti.

E’ stato il movimento delle donne a porre come centrale la necessità di partire dall’esperienza concreta dei corpi per ragionare sui temi etici della vita, della morte e del limite e anche sull’intreccio tra diritto al lavoro e diritto alla salute sono state, (e sono ancora), delle donne a dire parole di verità svelando contraddizioni e aprendo fecondi conflitti.

Donne erano quelle che, negli anni ’80 a Genova, nel quartiere di Cornigliano, non senza fatica e dovendo superare l’ostilità di molti uomini, (spesso i loro stessi compagni, mariti e figli), fondarono il Comitato salute e ambiente.

Iniziarono mostrando i lenzuoli stesi ai davanzali anneriti dalla polvere dell’acciaieria, la stessa che finiva dritta nei polmoni delle loro bambine e bambini, così come oggi le donne di Taranto mostrano la micidiale materia nera che raccolgono in casa, mentre raccontano di vietare ai figli e figlie di giocare nel cortile nelle giornate di vento. Sono maestre le genovesi della scuola Villa Sanguineti, la materna che il progetto Tav del Terzo valico prevede di chiudere perché ne intralcia il percorso: nel caso in cui non la si cancelli i piccoli e il resto della popolazione dovranno ingoiare per anni idrocarburi e polveri sottili a causa dei lavori e del passaggio costante di camion. Sono state le donne di Vicenza a sfilare in silenzio con dei bastoni per le vie della bella città veneta nella quale si sta sviluppando il mostruoso insediamento del secondo aeroporto militare, mormorando il nome del fiume che lentamente morirà nel cemento. Ancora donne le parenti dei morti d’amianto a chiedere che non si ripeta mai più lo scempio velenoso e silenzioso sui corpi di altri esseri umani. Come può essere onesto, compatibile e giusto un lavoro che ammala e uccide?

Sono davvero civiltà e progresso, questi, nei quali o si lavora o si inquina, e si crea contrapposizione tra lavoro e salute, mettendo contro due diritti inalienabili?

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