Lo Sferisterio di Macerata, insieme all’Arena di Verona uno dei due teatri all’aperto, propone una stagione interessante con un trittico, La Traviata, Boheme e Carmen, incentrato sull’eroina femminile. Da molte stagioni l’appuntamento maceratese prevede il contrappunto degli “aperitivi musicali”, conferenze-intrattenimento, tenute da musicologi, letterati e intellettuali con la passione per la musica. Colpisce l’immaginario che per ben due volte gli appuntamenti presumano per Carmen l’aggettivo ‘fatale’, riproponendo il mito della femme fatale e, nel secondo caso, quello dell’opera fatale.

Mi chiedo: è legittima questa aggettivazione per Carmen? Ritengo che lo sia almeno per tre diversi profili; che cosa vi è di più ‘destinale’ della morte dello stesso compositore Georges Bizet, avvenuta precocemente all’ancor giovane età di 37 anni, dopo la trentatreesima replica della stessa opera che non aveva goduto di un successo e di un riconoscimento immediato. Le cause della morte del compositore francese non furono mai chiarite; a poche ore dal decesso furono notate sulla testa del musicista alcune tracce di sangue, ma tutto questo non risulta dall’atto di morte. Si possono dunque formulare due ipotesi: la prima è che Bizet si suicidò e i familiari chiesero la comprensione del medico legale perché il compositore potesse avere esequie religiose; la seconda: il sangue uscito dall’orecchio sinistro di Bizet, trovato sul cadavere, era probabilmente dovuto a un ascesso insorto dopo l’insuccesso della ‘prima’ di Carmen. In entrambi i casi fu l’opera, accolta non bene dal pubblico, a determinare l’esito fatale.

Un secondo profilo destinale di Carmen fu il fatto che rappresentò il pretesto per la clamorosa rottura tra Friedrich Nietzsche e Richard Wagner. Fu proprio l’ascolto di Carmen a determinare la rottura con il grande musicista cui era stata dedicata la prima, grande opera nietzschiana, La nascita della tragedia. Proprio quel Wagner, idolatrato nel capitolo XXI de La nascita della tragedia per il III Atto del Tristano e Isotta, una musica irresistibile quanto il movimento ondoso del mare, diventerà nel 1888, dopo aver assistito per la ventesima volta alla Carmen, un musicista da rifiutare: “… quanto mi è nociva questa orchestra wagneriana! La chiamo scirocco. Comincio a sudare in maniera fastidiosa”.

Ed infine il terzo profilo: la Carmen, come del resto la pucciniana Manon Lescaut, icona della femme fatale. Si pensi in particolare all’ultimo grido di Don Josè, con cui si chiude l’opera: “sono io che l’ho uccisa. Oh mia Carmen! Mia Carmen adorata!”. Ciò si deve al fatto che il soggetto dell’opera, desunto dall’omonima novella di Prosper Mérimée del 1845, e in particolare la straordinaria figura della protagonista sono concepiti ancora oggi come attuali. Non è da considerarsi affatto casuale se diversi registi, incoraggiati dalla popolarità e dalla modernità del ‘soggetto’ di Carmen, ne abbiano tratto film di qualità a volte assai pregevole. Gli ultimi due, di Carlos Saura (1983) e Francesco Rosi (1984), sono in larga misura responsabili del mito della Carmen anche tra i meno interessati al teatro d’opera. Ma di film tratti da Carmen se ne contano a decine, fin quasi dalla nascita del cinema; basti ricordare i più noti: la Carmen di Cecil DeMille (1905), di Charlie Chaplin (1916), di Ernst Lubitsch (1918), di Jacques Feyder (1926), di Lotte Reininger (1933), di Otto Preminger (1954). La miglior conferma della fatalità di Carmen e dell’opera di Bizet.

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