Secondo il ministro dell'Ambiente Taranto si muore di cancro più del normale probabilmente per l’inquinamento degli anni passati, “contaminazioni ambientali derivanti da impianti che a quel tempo operavano nel rispetto delle leggi”. Ma nell'impianto secondo i magistrati non sono stati mai fatti interventi
Oggi i lavoratori dell’Ilva di Taranto manifestano perché vedono in pericolo la loro fabbrica e il loro lavoro. Il copione è già scritto: il padrone dell’Ilva, Emilio Riva, 86 anni, dalla settimana scorsa agli arresti domiciliari, e i suoi sostenitori, sperano di poterla mettere all’attivo come una protesta contro i magistrati che hanno stabilito il sequestro di parte degli impianti. E giustamente gli operai di Taranto oggi si scaglierebbero contro i magistrati se dessero retta alle rassicurazioni distribuite ieri mattina alla Camera dei Deputati dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini nella sua informativa urgente. La sintesi è che il problema è molto complesso, e che si stanno attivando numerosi tavoli per trovare una soluzione, anche perché “siamo in presenza di procedure molto lunghe”. La solita burocrazia italiana, messa sotto accusa da chi è stato per vent’anni direttore generale del ministero che oggi guida.
Clini appare sostanzialmente ottimista: il suo impeccabile ragionamento da medico del lavoro, quale è per formazione, è che se a Taranto si muore di cancro più del normale questo è sicuramente dovuto all’inquinamento degli anni passati, più precisamente a “contaminazioni ambientali derivanti da impianti che a quel tempo operavano nel rispetto delle leggi”. Poi, spiega il ministro, le cose sono cambiate, e l’Ilva è intervenuta sugli impianti, riducendo drasticamente l’inquinamento. Quindi oggi “potrebbe essere più complesso identificare una relazione diretta, causa effetto, con la situazione attuale degli stabilimenti Ilva a Taranto”. Ciò significa che, se l’ipotesi del ministro dell’Ambiente trovasse un riscontro, il problema sarebbe già risolto. E che i magistrati che hanno arrestato lo stato maggiore dell’Ilva e ordinato il sequestro degli impianti stanno forse processando il passato. Infatti il ritornello di queste ore è che non bisogna contrapporre salute e lavoro, e quindi la fabbrica non va chiusa a prescindere. Un argomento a cui il Gip di Taranto Patrizia Todisco ha dato una risposta definitiva nel decreto di sequestro degli impianti: “Ragionando diversamente si arriverebbe all’assurdo giuridico di operare delle comparazioni fra il numero di decessi accettabili in relazione al numero di posti di lavoro assicurabili”.
In realtà è falso che i magistrati di Taranto stiano processando il passato. Stanno mettendo sotto accusa il presente perché il passato è già stato giudicato e condannato. Il curriculum di Emilio Riva parla da solo. Ha comprato l’Ilva di Taranto nel 1995 per 1450 miliardi di lire. Nello stesso anno la fabbrica gli ha reso una quantità di profitti superiore al prezzo pagato. Un anno dopo ha chiesto all’Iri la restituzione di 800 dei 1450 miliardi sostenendo di aver trovato che il centro siderurgico era talmente inquinante da richiedere interventi per quella cifra. Ha detto allora: “Indipendentemente dal fatto che l’Iri li riconosca o meno, io questi lavori li devo fare”. Nel 2001 dichiarava di aver investito nel rifacimento delle cokerie, epicentro dell’inquinamento, 150 miliardi in cinque anni. L’unico modo di tenere insieme salute e lavoro è di tenere a freno l’inquinamento della fabbrica. Riva non l’ha mai fatto abbastanza. Rivendica di aver investito 1150 milioni di euro in quindici anni contro l’inquinamento a Taranto, ma evidentemente non ha fatto abbastanza. E infatti non si capirebbe fino in fondo la presa in giro costituita dai frenetici tavoli di queste ore (come se ci fosse un’emergenza) senza ricordare che per gli stessi fatti per cui è stato arrestato la settimana scorsa Riva è stato processato e condannato già due volte negli scorsi anni, mentre politici, tecnici e tecnici-politici ignoravano il problema. Dunque val la pena di ricordare che, a parte le complesse normative regionali, nazionali ed europee, c’è un articolo del codice penale, il 674, secondo cui commette reato “chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. È solo uno dei reati per i quali Emilio Riva è stato arrestato. Ebbene, ha avuto la sua prima condanna per lo stesso reato esattamente dieci anni fa, il 15 luglio 2002. La seconda il 12 febbraio 2007. Ogni volta, diversi giudici hanno scritto nelle sentenze che non ci si capacitava della ostinazione di Riva a inquinare senza fare gli interventi necessari a ridurre emissioni e diffusione di polveri. In tutti questi anni Riva ha alternato i processi alle promesse di interventi, tanto che il Gip che ne ha ordinato l’arresto a un certo punto del suo provvedimento di centinaia di pagine quasi sbotta: “Non può non segnalarsi quella che senza timore di essere smentiti può essere definita la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici Ilva attraverso i primi atti di intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente”: quattro, dall’8 gennaio 2003 al 23 ottobre 2006, tutti con le stesse promesse non attuate.
Nel processo di appello del 2004, il giudice nella sentenza accusa Riva di aver rivendicato “soluzioni asseritamente ispirate alla tecnica più avanzata”, mentre gli inquirenti hanno scoperto che quegli interventi li aveva già fatti la gestione precedente, e che Riva si era limitato a “un mero ritocco di quelle stesse misure di protezione, cautele e pratiche operative, adottate sin da epoca ampiamente precedente alla privatizzazione, già rivelatesi inidonee ad evitare il fenomeno di dispersione delle polveri all’esterno dello stabilimento, come ben noto” all’imputato. L’inchiesta che è sfociata negli arresti della scorsa settimana è stata avviata nell’estate del 2008. Subito dopo Riva, che non ha mai investito un euro fuori dell’acciaio, aderisce alla cordata per rilevare l’Alitalia promossa dal suo amico Silvio Berlusconi, appena rieletto premier. Gianni Dragoni, nel libro “Capitani coraggiosi”, dedicato a quella operazione, argomenta un legame tra i due fatti. E infatti nell’estate del 2011 il ministero dell’Ambiente rilascia all’Ilva di Taranto l’agognata Aia (Autorizzazione integrata ambientale), che pochi mesi dopo la regione Puglia chiede di rivedere perché le emissioni inquinanti dell’Ilva continuano, come prima, più di prima. Analisi, rilevazioni e perizie parlano chiaro, ma forse il ministro Clini non le ha lette attentamente. E neppure l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che ieri ha indicato nella magistratura una roccaforte della “cultura anti-industriale”.