«La questione del governo non riguarda solo la sinistra riformista, che rischia di farne una finalità ossessiva; riguarda anche noi, che rischiamo di amplificare le domande senza cercare le risposte. Ma il governo non deve diventare un feticcio, un idolo da adorare o da abbattere. Questo è per noi un passaggio particolarmente delicato: siamo condannati a governare, senza divenire subalterni a un governismo senza profilo. Come si fa? La ricetta non è il potere di interdizione, non sono i veti dei piccoli partiti, come si usava nella prima Repubblica e si usa nella seconda».
E poi:
«Dobbiamo essere consapevoli che nel centrodestra si è aperta una frattura. La leadership berlusconiana è in crisi; e l’Udc è stata la prima forza a denunciare questa crisi. La nostra coalizione resta alternativa al centrodestra, ma dobbiamo coglierne i punti di frattura. Dialogare. Interloquire, per costruire anticorpi civili e culturali e forme più avanzate di convivenza. C’è bisogno di offrire governabilità al Paese. E lo si può fare innalzando il livello della discussione pubblica».
A chiedergli se il centrosinistra attuale potrà aprirsi all’Udc, Vendola risponde che «per il momento è l’Udc a chiamarsi fuori. Ma credo che presto possa determinarsi un’implosione di quello che oggi chiamiamo centrodestra. E con i settori del centrodestra che sono espressione di cultura democratica non possiamo perdere le comunicazioni».
«Trovare un punto di equilibrio tra culture diverse non è un’attività ignobile; è la politica».
Così si esprimeva Nichi Vendola in una memorabile intervista resa a Aldo Cazzullo, il 5 marzo del 2007. Il governo Prodi era caduto per la prima volta nella sua seconda prova, per quel voto sull’Afghanistan, e il già presidente della Puglia esprimeva la propria predisposizione a un’alleanza con l’Udc di Casini che era quasi come quella di adesso, magari con un Totò Cuffaro a presiedere la Regione Sicilia invece che stare in galera.
Quell’intervista va ricordata per dire che l’apertura di Vendola all’Udc, ribadita il 1 agosto al termine dell’incontro con Pierluigi Bersani, non solo era nell’aria e nell’ordine delle cose ma c’era già stata. Certo, in un tempo antico e forse impossibile a ripetersi ma comunque in un tempo in cui “trovare un punto di equilibrio tra culture diverse è la politica”. E quindi non c’è da scandalizzarsi per quanto avvenuto dopo l’incontro con Bersani e la decisione di (ri)candidarsi alle primarie da parte del presidente di Sel. E’ il frutto naturale della strategia politica di questo partito, tutto sommato chiara ed esplicitata fino all’estremo: fare concorrenza al Pd nel campo largo del centrosinistra, dei “progressisti”, come dice di nuovo Bersani e provare a portare la sfida di una sinistra, grosso modo socialdemocratica, fin dentro il mondo democratico.
Tutto liscio, dunque? Tutto a posto?
No. Non lo è. La sindrome delle “orecchie a svendola”, battezzata dagli “indiani metropolitani” nel 1977 per definire il moderatismo di Giorgio Amendola, e del suo corrispettivo nel sindacato, Luciano Lama, torna prepotentemente anche se i paragoni sono dettati più dalla tentazione irresistibile dei giochi di parole che dalla simmetria dei personaggi. Ma vale la pena segnalare che Nichi Vendola aveva reincarnato un sentimento esistente in gran parte del mondo di sinistra di questo paese, quello di una “narrazione” alternativa, di una possibilità di non morire democristiani, come si diceva un tempo, e di provare a dare un’altra agenda alla politica di questo paese. Le “narrazioni”, appunto, le “fabbriche di Nichi”, l’entusiasmo di tanti giovani, la vittoria alle primarie pugliesi e poi a quelle di Milano, il sostegno alla Fiom e agli operai, i diritti civili, tutto questo non è da buttare e le speranze accese non sono da deridere.
Vendola ha rappresentato molte di queste cose e la delusione che si legge oggi nei messaggi via Facebook, nelle liste o nei siti di quella “sinistra sociale” e plurale che si fa sentire nella “rete” esprime l’ennesima disillusione. Probabilmente l’illusione sarebbe durata nel tempo se invece di aprire anche all’Udc, Sel avesse riproposto l’alleanza al solo Pd. Sarebbe sembrato un centrosinistra, di sinistra, di fronte al centrismo dilagante dell’era Monti. E, purtroppo, sarebbe servito a poco, per capire dove sia arrivato il partito di Bersani, indicare la lettura della “Carta d’intenti” che Pierluigi Bersani ha presentato il 31 luglio: in quel testo c’è scritta tutta la strada fatta dal Pd per diventare il gestore di questo sistema, di questa economia e della sua crisi. E’ bene ricordare che, al di là dei rapporti con Casini, la Sel di Vendola si allea strategicamente con quel partito e con quella dichiarazione programmatica che muove dall’azione del governo Monti e “dall’autorevolezza con cui ci ha riportato in Europa”. Ma in politica, si sa, le cose semplici si capiscono di più e meglio e la rimozione del “veto” nei confronti dell’Udc è la cartina di tornasole della strada fatta da Sel e del cammino futuro di Vendola e compagni.
Nemmeno in questo caso serve dire “io l’avevo detto” ma ancora una volta è utile sottolineare come la sinistra istituzionale e tradizionale di questo paese abbia fatto di tutto – con i Lama nei tempi d’oro e poi, in tempi di magra, con Occhetto, D’Alema, Veltroni ma anche Bertinotti, Cossutta, Vendola (Diliberto e Ferrero li teniamo per un’altra occasione) – per distruggere l’idea stessa di sinistra e di alternativa. Nel mirabolante concatenarsi di parole a effetto e di strategie radicali, la sostanza che resta, anche dopo questa giornata, è quella dell’ennesima disfatta.