Colgo lo spunto di alcuni commentatori. Perché non sono così sicura che il confronto tra i termini di vivisezione e sperimentazione animale possa intendersi e risolversi come una questione esclusivamente lessicale. Provo a dire il perché.
Sul piano semantico, le obiezioni all’uso esteso che gli animalisti fanno del termine “vivisezione” non sono sostenibili. Prendiamo due dizionari tra i più consultati e prestigiosi: la Treccani e il Merriam-Webster-Britannica.
Ovviamente super partes, entrambi questi strumenti di consultazione linguistica non hanno difficoltà a segnalare che il termine “vivisezione” serve anche per designare la “animal experimentation especially if considered to cause distress to the subject”. Ovvero, alla lettera: con il termine vivisezione si può indicare (per estensione) “la sperimentazione animale specie quella che si ritiene procuri angoscia/dolore/pena/stress ecc. al soggetto”.
Questo era il Webster, ma la Treccani è ancora più esplicita nel segnalare l’intercambiabilità dei termini sperimentazione animale e vivisezione.
A tutti gli effetti, quando polemizzano sul presunto uso improprio della parola vivisezione, i ricercatori su animali compiono un’operazione abbastanza scoperta: cercano cioè di convincere in primis se stessi e poi soprattutto il pubblico, del fatto che esista una cesura netta, totale, definitiva e irreversibile tra quella che è nata nell’Ottocento come “vivisezione” e l’attuale “sperimentazione animale”.
Seguendo il filo di questo ragionamento, “quella” (ovvero la vivisezione) era negativa. “Questa” (la sperimentazione animale) è invece positiva e “buona da pensare”.
Quella, ovvero la vivisezione, era grossolana, cruenta, non regolamentata a livello nazionale e internazionale (le regole cui soggiaceva erano quelle che si dava di volta in volta il corpo medico), si svolgeva alla luce del sole, con frequenti dimostrazioni pubbliche aperte a tutti, causava grandissima sofferenza agli animali e finì col provocare orrore. Questa, ovvero la sperimentazione animale, viene invece certificata/autocertificata come un complesso dispositivo di procedure accuratamente regolamentate, in molti casi addirittura eleganti e raffinate (vedi gli studi di neurologia sulle scimmie!), dove si fa massima attenzione… alla sofferenza degli animali, dove nessun “distress” causato agli stessi (400 milioni all’anno!) è superfluo, un universo dove “vivisezionare” un animale è un reato punibile per legge (?), e i cui protagonisti, primari ospedalieri, rettori e docenti universitari, operatori dei centri privati – insomma seri professionisti, depositari dell’unico modo corretto che esista per fare ricerca, responsabili del bene comune, scrupolosi nell’applicare la legge – nulla hanno a che fare con gli avventurosi pionieri d’antan.
Ok, crediamoci. Però, prima, dobbiamo sbarazzarci di una fastidiosa domanda: chi certifica che l’attuale pratica della “sperimentazione animale” sia davvero una cosa “buona da pensare”, assai diversa nella sostanza e in assoluto contrasto – per ciò che viene inflitto agli animali – con l’accertata crudeltà della vivisezione? In che modo questo assunto può essere dimostrato? Facendo appello a quali argomenti?
Ora, se mi è consentito, io dico che qui casca l’asino: perché (per esempio) uno degli argomenti più sentiti e categorici che gli sperimentatori su animali adducono a loro difesa è che ciò che essi fanno non dipende da capriccio o arbitrio bensì dalla legge. E allora guardiamola bene questa legge, leggiamocela riga per riga la Direttiva 2010/63/UE, approvata a Strasburgo due anni fa, che regolamenta la sperimentazione animale!
Via libera ai test sui primati e gli animali transgenici (in certi casi persino sulle scimmie antropomorfe), via libera alla sperimentazione sui cani e sui gatti randagi, via libera al riutilizzo (dico: riutilizzo!) di uno stesso animale anche in procedure che gli causano intenso dolore, angoscia o sofferenza, nuoto forzato fino alla morte, scosse elettriche fino a ottenere l’impotenza, ricorso all’anestesia solo se e quando gli sperimentatori lo ritengono “opportuno”, traumi intesi a produrre insufficienze organiche mutiple, toracotomie e cioè l’apertura del torace senza analgesici (apertura del torace senza anestesia!), test di tossicità in cui la morte è il punto finale … E poi, al capitolo metodi di soppressione: decapitazione, elettrocuzione, dislocazione cervicale, dissanguamento…
E ancora, ecco l’articolo 14, che consente di somministrare a un animale sostanze neurotossiche paralizzanti che ne immobilizzano i muscoli ma non la coscienza: sì, essi possono restare vigili e terrorizzati, impossibilitati a respirare autonomamente, col solo beneficio di un analgesico mentre vengono operati…
Se è “buono da pensare” un suppliziario medievale, allora è buona anche questa legge che regolamenta la sperimentazione animale. Ma se non lo è, forse gli sperimentatori su animali dovranno finalmente cominciare a fare i conti con se stessi abbandonando una volta per tutte i fragili alibi semantici. Un tempo si potevano vivisezionare, tra urla e grida, cani o capre o maiali sotto gli occhi dei profani. Ora non più (tra l’altro agli animali si recidono le corde vocali). E tuttavia, malgrado il prodigioso sviluppo tecnologico, nonostante le cineprese al titanio da conficcare nel cranio, le gabbie di contenzione “intelligenti”, i vaporizzatori di acido a tempo, i forni ustionanti elettronici, i camici bianchi e i guanti di lattice, non c’è dubbio che agli occhi e al cuore di chi penetrasse oggi in uno stabulario e ci restasse anche solo un poco, la sperimentazione animale susciterebbe altrettanto indelebile orrore e rigetto (e fors’anche di più proprio per le connotazioni tecnologiche e la portata mortifera assunta) della “vecchia” vivisezione. Questo spiega, senza tema di smentite, perché i centri di sperimentazione animale sono tra i luoghi più inaccessibili e segreti della società in cui viviamo.
E allora – torniamo a bomba – di che cosa stiamo parlando: sperimentazione animale o vivisezione?