La civile Lombardia (quanto poi sarà “civile” una Regione al cui governo siedono 14 indagati per una gamma variopinta di reati, dalla corruzione, alla truffa al favoreggiamento della prostituzione?) brucia: dal 2010 sono stati 300 i roghi di automobili, cantieri edili, macchinari. Lo spiega la relazione della Commissione antimafia del Comune di Milano voluta dal sindaco Pisapia. Uno dirà: avranno fatto il conto delle denunce. Invece no, il monitoraggio è frutto del lavoro dei Carabinieri dell’hinterland milanese. Nessuno tra le vittime ha fatto denuncia, perché nessuno ha ricevuto “pressioni, ricatti, minacce”. Niente estorsione, niente denuncia. Tanto che – riporta un articolo del fattoquotidiano.it  – un inquirente così si sfoga: “Sembra di indagare contro le vittime”.

La mafia, anzi la ‘ndrangheta, quassù non spara: lo si sente dire spesso, quasi fosse un vanto. In realtà spara poco perché non ce n’è bisogno. Ma se in due anni 150 cantieri vengono sequestrati per infiltrazioni mafiose nelle imprese e se nel 2009 vengono emesse 110 condanne in capo ad affiliati della ‘ndrangheta dal tribunale di Milano, è la matematica a dirci che non è il caso di girarsi dall’altra parte. Di pensare, non senza uno strisciante razzismo, che non è cosa nostra. Invece è proprio un affare nostro perché in ognuno di quei roghi c’è la fiammella di un sentimento che paralizza la vita. E si chiama paura.

I fuochi non ardono solo in Lombardia. In luglio è toccato ai terreni di Libera, a Isola Capo Rizzuto in Calabria: due incendi hanno distrutto una parte del raccolto ottenuto dalle terre confiscate al clan Arena. In quegli stessi giorni, a molti chilometri di distanza nella sonnecchiosa Mantova, è esplosa una bomba. Alle due di notte il quartiere Dosso del Corso è stato svegliato da un boato, il suono di un ordigno piazzato davanti all’abitazione di un magistrato. Il dottor Giulio Tamburini, che indaga su reati ambientali (processo Montedison) e sulla criminalità organizzata, ha detto ai cronisti: “Non parlo, cercate di capirmi. Questa volta prima della mia professione c’è di mezzo la mia famiglia”. Come si fa a non capirlo? In casa dormivano con lui la moglie e i figli, i vetri rotti hanno invaso le stanze.

La minaccia vuole sempre piegare la coscienza, la dignità del lavoro, delle idee, dei valori, vuole sempre insinuarsi in una decisione: aprire o no un’inchiesta, scrivere o no un nome sul giornale, pagare o no il pizzo. I metodi sono quelli, dai terroristi alla malavita: proiettili nelle buste anonime, telefonate mute nella notte, fiamme alle auto o ai negozi. Non ci sono estintori che possano spegnere l’inquietudine profonda generata da questi “avvisi”: il pericolo è un odore preciso che gli tutti gli animali riconoscono; né basta il disprezzo della ragione per la viltà del gesto. Perché nessun uomo è un’isola e tutti, oltre a se stessi, hanno qualcuno da proteggere. Però si può cercare di essere meno soli: oggi sono molte le associazioni di volontari che lottano contro le mafie, insegnando a dire no. Quali armi contro la paura? La condivisione, la denuncia pubblica, l’isolamento di una cultura criminale che non conosce onore anche se ne fa una biglietto da visita. E quella frase famosa di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Senza più ceneri sulla strada.

Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2012
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