Cinema

Un reggiano alla corte di Sorrentino: “Basta banalità, nei film ci vuole ambiguità”

Cristiano Travaglioli è il montatore di due grandi successi del regista napoletano: Il Divo e This must be the place. In attesa de La Grande Bellezza, che li vedrà di nuovo lavorare insieme, i segreti di un compito oscuro e fondamentale nella creazione cinematografica. Con una certezza: "Il pubblico cinematografico sta mutando paurosamente. E in peggio"

di Davide Turrini

Bisognava nascere negli anni sessanta/settanta. L’essenza del cinema sta lì, forse anche un po’ prima, di sicuro non dopo. Parola di Cristiano Travaglioli, classe 1968, montatore ufficiale degli ultimi film di Paolo Sorrentino come Il Divo e This must be the place. Insomma il battito, il respiro, il ritmo dell’immagine creata dal regista napoletano passa dalle mani e dalla mente di questo intraprendente e colto riorganizzatore di fotogrammi.

Centro Sperimentale a Roma tra il 1995 e il ’96, assistente volontario sul set di Ciprì e Maresco ne Lo zio di Brooklyn (1995) poi montato in moviola con il grande Iacopo Quadri, Travaglioli incontra Paolo Sorrentino quando nel 2001 diventa assistente al montaggio per L’uomo in più (2001), poi in collaborazione stretta per il cortometraggio La notte lunga e ancora da assistente per Le conseguenze dell’amore e infine la sostituzione di Gigiò Franchini per motivi di salute sul set de L’amico di famiglia. “Nulla di eccezionale, è stata la classica gavetta”, precisa il 44enne marchigiano trapiantato a Reggio Emilia dopo poche settimana di vita.

Una gavetta che è diventata vicinanza, se non addirittura lavoro gomito a gomito, tanto che dopo la qualifica di montatore per Il Divo e This must be the place, Travaglioli è pronto per La grande bellezza, nuova opera in lavorazione di Paolo Sorrentino, con il ritorno davanti alla macchina da presa di Toni Servillo

“Con Sorrentino c’è un rapporto di scambio continuo di opinioni sulle scelte da prendere, fatto di armonia ma anche di grande tensione e spesso la spunta lui”, spiega al fattoquotidiano.it il montatore reggiano, “Io sono per la politique des auteurs quindi se vince il regista sono più che contento”.

Ragazzo d’altri tempi, Travaglioli. Uno che s’è mangiato pane e Godard, Scorsese e Francis Ford Coppola, e guarda il grande schermo dall’angolazione meno evidente ma cruciale del cinema contemporaneo: “Il ruolo del montatore è vicino a quello dello spettatore. Una volta letto lo script, infatti, cerco di vedere le immagini come le vedrebbe lo spettatore. Il mio è un lavoro attraverso il quale si dà forma, struttura e misurazione del tempo al film”.

“In This must be the place – continua Travaglioli – ho fatto il corvo. Ovvero gli indicavo spesso ciò che non funzionava anche nello sviluppo del racconto. Ne Il Divo, invece, è stato differente: lì c’erano già nella sua testa intere sequenze squisitamente di montaggio. Da questo punto di vista, è stato un film assolutamente scorsesiano, mentre per il film con Sean Penn evocherei più che altro i Coen“.

E ad ascoltare questo travolgente e torrenziale montatore nato alla scuola della sperimentazione mai fine a se stessa, si capisce che il suo ruolo dentro la macchina cinema non è meramente tecnico. Travaglioli ascolta e suggerisce, di certo non si sottomette al volere di regia e produzione. Un bastone tra le ruote nelle sbrigative produzione contemporanee: “Sarà questione di accidentalità, ma lavoro sempre più spesso con persone che tengono molto al cinema. Parlo del cinema che c’è stato e di riflessioni senza pomposità”. 

Tra i registi “incrociati” ecco Corrado Guzzanti per Fascisti su Marte (“un creativo che sconfina nell’ossessione, una volta mi ha portato decine di modellini delle astronavi disegnate su un fogliettino”), Massimo Coppola all’esordio con Hai paura del buio: “Un intellettuale che ragiona prima di tutto sulla forma. Con lui il montaggio è una questione di natura filosofica. Ricordo che non voleva tagliare un piano sequenza non perchè non funzionava, ma per ragioni ideali”.

Chiaro, allora, che per un montatore che conosce il cinema nelle sue viscere e profondità, buggerarlo con pellicole come quelle contemporanee non è facile: “Il cinema di ricerca non esiste più e questo non è un bene. Anche il pubblico sta cambiando e diventando più elementare. Negli anni settanta era facile esaltarsi per qualcosa di più elaborato, magari all’apparenza incomprensibile, ma oggi siamo totalmente all’opposto: esiste una forma del racconto ufficiale, l’importante è che si capisca questa, il resto non serve a niente. Ma che cinema è mai questo? Nell’opera d’arte ci vuole ambiguità“.

“Ricordo un episodio che mi è accaduto di recente”, chiosa il reggiano, “sono uscito da una delle pochissime sale che proiettavano la Palma d’Oro, Lo zio Boonme che si ricorda delle sue vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul, esclamando felice che era un capolavoro e una persona che era dentro la sala con me ha sentito quello che dicevo e mi si è scagliato contro con rabbia”.

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