Diversi fattori stanno portando il trasporto pubblico locale italiano verso il collasso. A causare le maggiori difficoltà è l’incertezza del quadro normativo, con le continue oscillazioni tra orientamenti normativi pro-liberalizzazione e comportamenti pratici delle amministrazioni pro-monopoli esistenti. Alla luce della sentenza della Corte costituzionale serve un riassetto profondo del comparto, che preveda politiche di accompagnamento all’apertura del mercato alla concorrenza, consentendo la ristrutturazione e riorganizzazione delle aziende.
di Pietro Spirito* (Fonte: lavoce.info)
Il comparto del trasporto pubblico locale in Italia si avvia verso il collasso di sistema. A determinare questa condizione concorrono fattori diversi:
Diventa a questo punto impellente mettere in campo una iniziativa di riassetto profondo del comparto, per evitare l’implosione delle aziende, la drastica riduzione dell’offerta di servizi per i cittadini, l’inevitabile conseguenza di ridimensionamenti ancor più profondi del necessario del personale impiegato nel settore.
Riforma senza qualità
È dalla riforma Burlando del 1997 (Dlgs n. 422/97) che si sono rincorsi tentativi plurimi di liberalizzazione del settore del trasporto pubblico locale, introducendo legislativamente criteri di contendibilità, secondo i principi della concorrenza per il mercato, mentre si è abbandonata del tutto la via della regolamentazione incentivante. L’indirizzo normativo è stato più volte rimaneggiato, nel tentativo, a corrente alternata, di accelerare o ritardare l’appuntamento con l’apertura del settore a principi di competizione.
A quindici anni di distanza dall’avvio del processo, occorre interrogarsi sulle ragioni per le quali l’obiettivo non è stato sinora conseguito. Essenzialmente, il legislatore non ha affrontato uno snodo di fondo, che è riconducibile alla struttura economica del mercato. Le liberalizzazioni sono possibili e positive nel caso in cui si tratti di aprire alla concorrenza un settore nel quale il monopolista genera extra-profitti, che possono essere distribuiti tra il consumatore finale e le imprese nuove entranti, quando però si intende fare altrettanto in un settore in strutturale perdita economica, nonostante i corrispettivi pubblici derivanti dai contratti di servizio, è indispensabile affiancare alla liberalizzazione provvedimenti di politica economica che mettano a disposizione gli strumenti necessari alla ristrutturazione e al miglioramento degli indici di produttività.
La totale mancanza di questa seconda, indispensabile, gamba, ha reso zoppo il processo di liberalizzazione nel trasporto pubblico locale, e si sono così cementate le coalizioni di resistenza alla innovazione, formate da un reticolo di mondo sindacale, sistema dei fornitori, tessuto politico municipale interessato a perpetuare un controllo politico e non manageriale sulle imprese.
Accanto alla carenza di strumenti per l’attuazione effettiva dell’indirizzo politico, si è affiancata una isteria normativa del legislatore, che ha provato a introdurre strappi temporali inattuabili, tentando di fissare una agenda del tutto incompatibile sotto il profilo della fattibilità operativa.
La sentenza della corte costituzionale
La confusione dell’assetto normativo, con continui stop and go che hanno determinano una sostanziale stasi del quadro istituzionale, è confermata dalla recente sentenza n. 199/2012 della Corte costituzionale del 17 luglio 2012, che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4 del Dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sia nel testo originario che in quello risultante delle successive modificazioni.
Con la decisione della Corte costituzionale, peraltro ampiamente prevedibile, la normativa nazionale rientra nel solco della normativa comunitaria attualmente in vigore per i servizi pubblici locali che consente, anche se non impone (vedi la sentenza n. 325 del 2010 della stessa Corte), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la “speciale missione” dell’ente pubblico, alle sole condizioni del capitale interamente pubblico della società affidataria, del cosiddetto “controllo analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidataria deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici), e infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante.
A valle della pronuncia della Consulta, è opportuno tornare a mettere in campo una normativa di settore, fondata sulle regole contenute nel decreto legislativo del 1997, dispiegando l’efficacia dei due strumenti regolatori possibili per orientare il trasporto pubblico locale verso una necessaria frontiera di efficienza: la regolazione incentivante nel caso in cui gli enti locali vogliano utilizzare gli affidamenti in house, la concorrenza per il mercato, nel caso in cui la scelta degli enti locali sia per il confronto competitivo. Del resto, quest’ultima è una particolare forma di regolazione, che utilizza alcune proprietà del mercato per ottenere informazioni, in aggiunta agli incentivi diretti.
Non ripetere gli errori del passato
Per rendere effettivamente praticabile entrambe le strade, non bisogna ripetere gli errori del passato. Occorre dunque che si realizzino quattro condizioni:
La strada dei tagli lineari o secchi di risorse al settore, unita a una convulsa situazione di contesto continuamente oscillante tra orientamenti normativi pro-liberalizzazione e comportamenti pratici delle amministrazioni pro-monopoli esistenti, ha condotto, in questo quindicennio, solo a un degrado operativo delle aziende, e a un peggioramento della qualità del servizio per i clienti. È il momento di riprendere urgentemente un cammino realmente riformista.
*Pietro Spirito è direttore centrale strategia di Atac spa. Esperto di trasporti, ha lavorato nel Gruppo Ferrovie dello stato per 18 anni ed è stato direttore generale dell’Interporto di Bologna.