Era l’8 agosto di otto anni fa, quando il governo iracheno decise di ripristinare la pena di morte, che era stata sospesa il 10 giugno 2003 dall’allora amministratore statunitense per l’Iraq, Paul Bremer. Non che gli Usa disapprovassero la pena capitale (di cui sono orgogliosi e mortali sostenitori), più semplicemente dopo l’invasione del paese non c’era un sistema giudiziario che funzionasse.

Che ora funzioni è tutto da vedere.

Lo dimostra, tra i tanti esempi, quello paradossale del presunto “grande vecchio” del terrorismo iracheno, Ramze Shihab Ahmed, un pensionato settantenne con passaporto britannico che il 20 giugno è stato condannato a 15 anni di carcere per “finanziamento di gruppi terroristici”.

Ahmed, residente in Gran Bretagna dal 2002, è partito per l’Iraq nel novembre 2009 per provare a far scarcerare il figlio Omar. Arrestato a sua volta il mese successivo, è stato tenuto per quattro mesi in una prigione segreta nei pressi di Baghdad. Durante questo periodo, ha raccontato, per farlo confessare lo hanno torturato con le scariche elettriche sui genitali e semi-soffocato con una busta di plastica stretta intorno alla testa.

“Riapparso” nel marzo 2010, Ahmed è riuscito a fare una telefonata alla moglie Rabiha al-Qassab (un’ex insegnante di 65 anni che vive a Londra), chiedendole di avvisare le autorità e i media britannici chiedendo loro aiuto.

Aiuto che al momento non ha ottenuto alcun risultato. In poco più di due anni, Ahmed è stato processato nove volte, fino a quanto la pubblica accusa è riuscita, un mese e mezzo fa, a ribaltare le otto precedenti assoluzioni. Per emettere la condanna, il giudice si è basato sulla “confessione” rilasciata da Ahmed durante il periodo di carcere segreto a Baghdad (rifiutando invece di prendere in considerazione la sua denuncia di essere stato torturato) e sulle dichiarazioni di un presunto informatore. Durata del processo: 15 minuti.

Torniamo alla pena di morte. Nelle intenzioni del governo iracheno, il suo ripristino e la sua previsione per quasi 50 reati avrebbero fermato la violenza nel paese.

Se questo obiettivo sia stato raggiunto, è quanto meno dubbio. Quello che è incontrovertibile, perché pur nella mancanza di trasparenza qualche numero il governo iracheno o altre fonti locali lo forniscono, è che dal 2004 a oggi sono state emesse oltre un migliaio di condanne a morte, centinaia delle quali eseguite, attraverso procedure giudiziarie spesso sommarie: 138 solo nell’ultimo anno e mezzo, con un preoccupante aumento quest’anno, 70 nei primi sette mesi (34 in un solo giorno!) contro 68 nel 2011.

L’anno rischia di terminare peggio. Il 23 luglio il sito del ministero dell’Interno ha annunciato che 196 condanne alla pena capitale emesse nel solo governatorato di Anbar erano state confermate dalla Corte di cassazione.

Come prevede la legge, ora le condanne a morte devono essere trasmesse all’Ufficio della presidenza per la ratifica. Il 29 luglio ne sono state ratificate 12: non sono noti i particolari, se non che due dei condannati destinati all’esecuzione non sono cittadini iracheni.

Il presidente della repubblica dell’Iraq, il curdo Jalal Talabani, è personalmente contrario alla pena di morte. Ha così trovato un modo per salvare la sua coscienza senza salvare esseri umani: far firmare le ratifiche al vicepresidente Khudayr al-Khuzai.

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