È un anno da quando è cominciata (o sono trenta?) questa impresa. Dove siamo arrivati, cosa resta da fare.
Il diavolo, come sapete, fa le pentole ma non i coperchi. La pentola che volevo fare io era di rifare senz’altro il nostro vecchio giornale, il nostro gloriosissimo Siciliani, coi compagni di allora e facendoci dare una mano da qualche ragazzo volenteroso. L’idea era completamente sballata (non si “rifà” mai qualcosa) ma, come vedremo, “ù signuruzzu aiuta i matti e i picciriddi”.
Il giro dei vecchi amici – Vent’anni dopo – è stato emozionante. “Veramente sto facendo altre cose – ha detto D’Artagnan – Il re, la Fronda, il cardinale… Sapete, amico mio, che ora son capitano dei moschettieri, e spero di diventare maresciallo di Francia”. “Eh – ha sospirato Aramis – sarebbe bello sì. Fossimo come allora!”. “Voi al solito correte troppo – disse gravemente Porthos – Con chi vorreste fare una cosa del genere, con quali mezzi? Farete una cosa stentata, e la cattiva figura ricadrà sulla bandiera”.
Non c’era alcunché da rispondere, a tali obiezioni sensate. Purtroppo la voce era già circolata (“Tornano i Siciliani!”) e tornare indietro avrebbe significato rischiare il linciaggio.
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L’idea dei Siciliani, in realtà, era nata in un piccolo studio catanese, quello dove il giudice Scidà, immobilizzato a letto ma tutt’altro che domo, conduceva con pochi amici le sue battaglie (per cui lo aggrediscono ancora, anche ora che è morto). Fra una chiacchiera sulla Procura di Catania e una sul Mediterraneo di Braudel, non ricordo come buttò lì l’idea dei Siciliani: “Ma perché non li rifate?”. Non era il primo a chiederlo. Ma detto da lui era un’ altra cosa. Non fu difficile convincermi, su tale argomento.
Si riparlò dei Siciliani un paio di mesi dopo, alla mensa di Libera all’assemblea di Firenze. Una gran sala piena di ragazzi: il nostro tavolo – con dalla Chiesa e Caselli, e accanto quello di don Ciotti – era fra i pochi di gente adulta e posata.
Beh, forse posata non tanto, visto che l’idea dei Siciliani fu accolta come ovvia e giusta e con entusiasmo. Così, avevamo un gruppo dirigente (con Caselli, dalla Chiesa e Scidà c’era Giovanni Caruso, un “vecchio” del Giornale del Sud e poi del Gapa di Catania), il meglio dell’antimafia.
Ma, e il giornale?
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Il giornale fu messo in piedi con un giro di telefonate ai vecchi amici cronisti (Mazzeo, Giacalone, Mirone, Orsatti, Finocchiaro, Baldo, Giustolisi…) che risposero subito e costituirono il “nucleo duro”. Dei veterani vennero pure Gubitosa, Feola, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Biani;
oltre a quelli che erano già al lavoro nella progettazione del giornale e del sito (Luca Salici e Max Guglielmino), senza cui tutta la baracca non sarebbe sopravvissuta un momento. E siamo partiti.
Già dal numero zero, tuttavia, senza che io l’avessi veramente previsto, si unì una decina di giovani giornalisti, fra i venti e i trent’anni, di varie città d’Italia. Essi furono subito il cuore del giornale. In realtà, ciascuno di loro faceva già altri giornali (su carta o in rete) e aveva una sua storia precisissima alle spalle.
Così fu naturale, già alle prime battute, vivere quest’avventura come una rete. Non era più un vascello, quel che prendeva il mare, ma una flottiglia di navi, barche e barchette. Non più “I Siciliani” ma un bel “Siciliani Giovani” che univa felicemente il passato e il futuro.
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Io sono vanitoso, e ne trassi vanto. Ma la verità è che questa bellissima idea non fu mia, ma mi piombò addosso per “colpa” dei ragazzi, ed io ebbi semplicemente il buon senso di lasciarmi portare.
È vero che questo miscuglio di professionisti e di giovani, di veterani e di apprendisti, era nella nostra storia (Siciliani giovani degli anni ’80, Avvenimenti, l’Alba) e mia in particolare. Ma è anche vero che in ciascuno di questi casi l’idea non era mai di noi “vecchi” (e neanche mia) ma nasceva spontaneamente dai ragazzi.
Essere qualcosa più di un giornale, dare fiducia ai giovani, unire “regolari” e garibaldini:
questo da molti anni è il Dna dei Siciliani.
Noi stessi, in origine, eravamo i “carusi di Fava”. E adesso che ho sessant’anni capisco quanta grandezza c’era, professionale e umana, in questo puntare spavaldamente su noi ragazzi.
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Così si arrivò alle scadenze successive.
Ci fu una riunione (con l’avvocata Enza Rando, di Libera) da Scidà, uno Scidà allegrissimo e scintillante. Ed esattamente un anno fa, al festival del Clandestino, fu diramata al mondo la lieta novella.
A dicembre è uscito il numero zero, buono ma con una brutta copertina (mia); la seconda, di Luca Salici, era già migliore. Ma l’immagine definitiva, “moderna”, del giornale è stata raggiunta solo al terzo numero, con le copertine di Biani.
Da allora il giornale è uscito regolarmente, da marzo sono arrivati i primi ebook (per noi tanto importanti quanto il giornale). Invece siamo rimasti indietro nell’edizione su carta (la società editrice restò impantanata negli innumerevoli impegni, da noi non ben valutati, dei nostri amici) e il primo numero in edicola arriverà solo fra un mese e mezzo, a settembre inoltrato.
Abbiamo messo in piedi una prima struttura editoriale (provvisoria, per gestire le urgenze), e durante l’autunno definiremo la struttura definitiva, in cui dovranno essere rappresentati tutti i nodi locali (gruppi, giornali e siti) dei nostri amici.
Sarà una struttura di rete, “federativa”, sia sul piano d’azienda che su quello redazionale.
Non avrà, neanche stavolta, dei padroni alle spalle ma conterà sulla solidarietà delle persone civili. E questo, come capite bene, è già un pre-appello.
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Il lavoro che abbiamo fatto l’avete visto; a me non sembra del tutto indegno dell’obiettivo (certo, l’asticella è posta molto in alto). Inchieste a macchia di leopardo (ancora in alcuni luoghi manchiamo), niente urla, nessuna distinzione fra sud e nord, indipendenza assoluta, scrittura buona, organizzazione faticosa ma tutto sommato (per ora) sufficiente.
Sì, ma come vanno le cose dietro le quinte? Davvero siete questa banda di puri e duri che vi vantate di essere?
No, niente affatto. La rete è un concetto molto difficile da digerire. In ogni momento c’è qualche nodo che sta funzionando e qualcun altro no. E fra quelli che funzionano, la maggior parte di solito pensa molto più ai problemi immediati propri che a quelli più generali della rete.
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Questo è assolutamente normale, non c’è da rimproverare nessuno, anche se con quel che accade in Italia, e quel che ancora deve accadere, di rete ci sarebbe bisogno più del pane. Difficilmente possiamo aspettarcela da leader e primedonne vecchie e nuove. Nessuno sta puntando sui giovani, in realtà, né su qualche politica differente. È bipartisan, il precariato.
La rete, nel suo significato profondo, è una cosa nuovissima e ancora niente affatto “naturale”. Per rete finora s’intende un leader, alcune dichiarazioni “anti” e una folla di seguaci via facebook; e dei canali mediatici magari tecnicamente “alternativi” ma gestiti dall’alto. Non è quel che vogliamo.
Vogliamo una rete vera, utile, lenta da costruire, faticosa, concreta. Non un altro centro di potere o una nicchia. Ci si può arrivare (e comprenderla) solo a poco a poco, coi tempi di ciascuno, senza fretta.
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Vi chiederemo dei soldi, tanto per essere chiari, da qui a poche settimane. Non saranno le centinaia di milioni di Santoro (qui basta molto meno) ma resteranno soldi vostri. Noi non daremo via la baracca, terminati i proclami, a La7 o a qualcun altro.
Non siamo i migliori o i più infallibili, certamente. Ma i più liberi sì. L’andiamo dimostrando da trent’anni.
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‘Sta storia dei trent’anni, che camurria. Non per voi, certamente, che siete giovani e pensate ai trent’anni davanti. Quelli vecchi per voi sono solo una bella storia. Per me sono amici, passaggi, persone care col maledetto vizio di non esserci più. Certo: alla fine s’è vinto, ci siamo ancora. Ma è quell’ alla fine, l’amaro, pur nella felicità che (essendoci voi) non sia finita.
“Trent’anni fa, proprio di ‘sti giorni, mi ricordo stavamo laavorando al primo nuumero dei Siciliani. Eh, mica c’erano i computer, a quei teempi. A maacchina da scriivere, s’andava avanti…”.
Va bene, nonno Simpson, va bene…