Il nemico del mio nemico è mio amico. E pazienza se fino a ieri l’ho criticato e sbeffeggiato. All’insegna della più pragmatica real politik il Wall Street Journal compie un’inversione a U, riabilita Mario Monti e lo arruola tra gli alleati nella battaglia contro Frau Merkel e la sua politica del rigore a tutti i costi. Una politica di austerità che, e almeno in linea teorica, non dovrebbe essere del tutto invisa al quotidiano finanziario statunitense dall’impostazione conservatrice. Ma si sa, un conto sono le opinioni e un conto sono i fatti. E i fatti dicono che le posizioni tedesche stanno acuendo la crisi europea e mettendo sempre più a rischio la tenuta della moneta unica. Una situazione che potrebbe avere gravi ripercussioni anche sull’economia statunitense pregiudicando definitivamente prospettive di ripresa già di per se non esaltanti. Per di più proprio alla vigilia dell’avvio della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del prossimo 6 novembre.
A due giorni dall’intervista del presidente del consiglio italiano al settimanale tedesco Der Spiegel che ha suscitato in Germania reazioni piccate, il quotidiano newyorchese si schiera dunque apertamente al fianco di Monti con un articolo-intervista intitolato “Il lavoro di un italiano: il premier parla duro per salvare l’euro”.
Nell’articolo, in cui Monti torna ad essere un “raffinato professore che ha studiato dai gesuiti” forte della grande credibilità guadagnata sul campo, si sottolinea come il presidente del Consiglio sia stato “il più determinato ad affrontare l’approccio tedesco” oltre che il più autorevole sostenitore di un ruolo più attivo della Banca centrale europea nella gestione della crisi. Un riconoscimento al merito che, almeno fino al prossimo dietrofront, mette una pietra sopra agli attacchi degli ultimi mesi.
La relazione tra il professore della Bocconi e il quotidiano di Wall Street è infatti sempre stata piuttosto tormentata e ondivaga. La sua nomina al posto di Berlusconi fu salutata con grande favore ma l’innamoramento durò poco e la relazione si incrinò seriamente in occasione della riforma del mercato del lavoro “made in Fornero”. Il peccato imperdonabile di Monti fu, secondo il WSJ, quello di aver concesso troppo ai sindacati. Il quotidiano lanciò una vera e propria scomunica: “ci eravamo spagliati, Monti non è la Thatcher”, considerazione che altrove sarebbe un motivo di vanto ma da quelle parti deve suonare come la peggiore delle offese. E poi via con una lunga serie di stoccatine che culminano con l’articolo dello scorso 22 giugno in cui si ironizza sulla reale efficacia delle misure contenute nel decreto sviluppo paragonate al tentativo si svuotare il lago di Como con una cannuccia. Ora sembra tutto dimenticato e per suggellare la pace viene scomodato anche Alberto Alesina, ex alunno del professor Monti e ora docente ad Harvard che afferma: “Monti è il meglio di cui l’Italia disponga in questo momento. Ma non è un radicale”. Poco importa che Alesina sia autore di studi che vorrebbero suffragare il teorema che sta alla base delle posizioni tedesche e secondo cui le politiche di austerità favoriscono la crescita economica.