Il primo ministro siriano, Riad Hijab, è stato finora il personaggio più in vista del regime a decidere di abbandonare il presidente Bashar al-Assad per passare dalla parte del ricco finanziatore dei ribelli: lo Stato del Qatar adagiato su enormi riserve di petrolio.
In una guerra brutale caratterizzata non solo da un tragico spargimento di sangue, ma anche da dosi massicce di cinismo, la defezione di Hijab è sì un colpo altamente simbolico inferto al regime, ma non costituisce un colpo mortale per il presidente Assad.
Al pari dei diplomatici e dei generali che lo hanno preceduto sulla via dell’esilio, il primo ministro Hijab è un musulmano sunnita, mentre è sulla minoranza alawita che poggiano il partito Baath e il governo di Bashar al-Assad. E gli alawiti sono ancora fedeli ad Assad.
Riad Hijab ha incaricato il suo portavoce in Giordania di annunciare che aveva deciso di “abbandonare un regime terrorista e sanguinario” e di unirsi “ai ribelli che si battono per la libertà e la dignità” autodefinendosi “un soldato di questa rivoluzione santa”.
Sembra tuttavia improbabile – per quanto “santa” possa essere la rivoluzione – che l’ex primo ministro, piuttosto corpulento per non dire grasso, si arrampichi sulle barricate ad Aleppo e imbracci un Rpg per sparare ai carri armati di Assad. È molto più probabile che vada a ingrossare le file degli ex “lealisti” che si stanno coagulando intorno a tre diversi – e spesso antagonisti – “governi in esilio”. Si tratta di personaggi per lo più immensamente grati al ricchissimo emirato del Qatar, per non parlare della “democraticissima” Arabia Saudita che appoggia la rivoluzione siriana.
Il Governo siriano, dal canto suo, si è affrettato a precisare che Hijab era già stato sollevato dall’incarico prima di annunciare la sua defezione, una dichiarazione questa che potranno prendere sul serio solo coloro che ancora credono a Babbo Natale.
Comunque sia, Assad ha già nominato il successore Omar Ghalawanji di Tartous, già ministro del suo governo. E ieri ha ricevuto il braccio destro della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei per rinsaldare i legami con l’ultimo alleato rimastogli.
Interessanti sono comunque le origini di Hijab. Viene dalla città di Khirbet Ghazel nella provincia di Deraa dove ha avuto inizio la rivoluzione dopo che alcuni poliziotti avevano torturato a morte un ragazzino di 11 anni.
Ma c’è un dettaglio ancora più importante e significativo: Hijab è cugino del vicepresidente Faroukh al-Sharaa, altro sunnita, ma elemento chiave della cabina di regia del potere di Assad. Fedele ed efficientissimo ministro degli Esteri sotto il padre di Bashar, Afez, il vicepresidente Sharaa oggi viene guardato da molti con sospetto perché si teme una sua defezione. Di recente è intervenuto pubblicamente per smentire queste voci, ma la smentita ha avuto l’effetto contrario e ha rafforzato i sospetti.
Dopo venti anni di fedele servizio nel partito Baath, prima con il padre Afez, ora con il figlio Bashar al-Assad, al-Sharaa è considerato da Assad un uomo fidatissimo.
Tuttavia, stanti le recenti defezioni, frasi del genere necessitano la postilla “per il momento”.
La fuga di Hijab da Damasco costituisce un colpo molto più duro per la reputazione, già largamente compromessa, del partito Baath che venne fondato come istituzione politica laica capace di accogliere esponenti di tutte le religioni tra cui il cristiano Michel Aflaq. Il numero crescente di sunniti che abbandonano il regime siriano e il suo esercito, rappresenta un ulteriore motivo di spaccatura per il partito Baath.
Secondo il portavoce di Hijab, abile nel parlare ma poco credibile, l’ex primo ministro aveva accettato due mesi fa la promozione da ministro dell’Agricoltura a premier solo perché minacciato di essere giustiziato.
Un’affermazione, questa, assolutamente incredibile. È improbabile che Assad abbia nominato primo ministro un uomo di cui non si fidava al punto da desiderare che fosse giustiziato. La realtà è molto più semplice: il poveretto aveva deciso di riparare all’estero.
Ed è quello che ha fatto.
© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2012