«Scrivo da sempre lo stesso articolo, finché le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose», così ripeteva Antonio Cederna (1921-1996) alla sorella Camilla.
Ed è questo il destino di tutti coloro che mettono la propria penna al servizio della salvezza del patrimonio storico e artistico e del paesaggio italiani: ma quanti sono, oggi? È impossibile non chiederselo, leggendo il bel libro che Francesco Erbani ha dedicato a Cederna (Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Legambiente 2012). E la risposta è che si contano – alla lettera – sulle dita delle mani.
In parte è colpa dei giornali. Erbani – che è uno di quei pochissimi, e scrive su «Repubblica» – lo sa molto bene, e cita un’attualissima analisi dello stesso Cederna: «Quando bruciano i boschi ti mandano a fare un articolo inutile, deploratorio: se invece d’inverno quando piove proponi un articolo sugli incendi boschivi ti guardano come se fossi matto. Hanno cioè rinunciato ad ogni impegno formativo, preventivo: se domani il Colosseo vacilla, tutti giù a scriverne, mentre i pericoli per l’Italia, antica e moderna, nascono nel silenzio, nel chiuso degli uffici: se si vuole evitarli bisogna parlarne prima che diventino fatto compiuto».
In parte, invece, è colpa degli addetti ai lavori: quanti archeologi o storici dell’arte seri accettano l’impegno civile di una scrittura giornalistica che non si riduca alle proficue marchette degli “eventi culturali” a cui i grandi quotidiani italiani dedicano ormai pagine e pagine a noleggio? Quasi nessuno tra i veri studiosi italiani di storia dell’arte pensa che tra i suoi doveri ci sia anche quella educazione dei cittadini al patrimonio e al paesaggio che è la premessa indispensabile di ogni tutela. E le cose peggiorano quando si parla di televisione: il piccolo schermo italico tollera il discorso sull’arte solo quando è ridotto ad una favoletta raccontata da intrattenitori, eccentrici quanto basta, ma rassicuranti.
Cederna, invece, era tutto tranne che rassicurante. La sua prosa incalzante, sarcastica e acuminata da far male ha bombardato per decenni una nazione di dormienti: fedele a se stesso che scrivesse sul «Mondo» o sul «Corriere», su «Repubblica» o sul «manifesto», l’archeologo Cederna è stato uno dei grandi giornalisti italiani del Novecento.
E lo è stato in un modo che non ha a tutt’oggi eguali, soprattutto per tre rarissime caratteristiche: la vastità degli argomenti che copriva (l’urbanistica e la salvaguardia del territorio; la distruzione del patrimonio monumentale diffuso; le operazioni di speculazioni sui siti monumentali – come quella, terrificante, dei principi Torlonia a Roma –, ma anche le scempiaggini della cosiddetta politica culturale, a partire dalla follia delle grandi mostre promozionali, oggi al loro apice); la dimensione profondamente politica (e giammai estetica) delle sue idee e della sua scrittura; la durezza con cui attaccava frontalmente figure potentissime, anche all’interno della burocrazia della tutela. Bisognerebbe ristampare la galleria di ritratti dei soprintendenti e dei direttori generali corrotti, incapaci, servilmente disposti a tradire la propria missione per compiacere «i pezzi più grossi di loro».
Se Cederna non è mai apparso una vestale piangente del patrimonio in rovina, ma piuttosto il comandante di una efficace resistenza civile, lo si deve al fatto che non era possibile tacciarlo di passatismo, nostalgia, elitarismo: «Solo le teste dure possono pensare, solo i distruttori d’Italia possono avere interesse a farci credere che la salvaguardia dell’antico è opera puramente passiva e di conservazione. Solo menti retrograde arrivano a pensare che si possano attribuire ai nuclei antichi, straziandone il tessuto, capacità e funzioni proprie dell’urbanistica moderna. Solo i vandali possono pretendere che la città moderna nasca dalle macerie della città antica. Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie … Insomma, solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna.» (dall’introduzione a I vandali in casa, 1956).
Francesco Erbani ci ricorda che «Cederna ha perso molte battaglie, ma molte le ha vinte». E che molto spesso il successo del suo impegno va misurato sull’entità degli scempi evitati: a cosa sarebbe ridotta oggi la, pur devastata, Appia Antica, se Cederna non l’avesse strenuamente difesa con una lotta lunga una vita?
Se Cederna potesse vedere oggi l’Italia delle associazioni (prima tra tutte la sua Italia Nostra), e dei comitati civici che crescono ovunque per difendere l’ambiente e il patrimonio dalle speculazioni e dal cemento in nome della Costituzione e del bene comune, sarebbe felice di constatare che il seme che ha instancabilmente sparso per tutta la vita ha, in qualche modo, attecchito. Come scrive ancora Erbani, «tra le lezioni che Cederna lascia, figura anche quella che battersi sia necessario, occorra farlo bene e convenga pure».
A quindici anni dalla sua morte, dobbiamo riconoscere che il patrimonio storico e artistico italiano deve più a lui che a Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Federico Zeri messi insieme. Possiamo dunque ben chiederci, con Leonardo Benevolo: «cosa sarebbe l’Italia se Cederna fosse stato pigro»?