Con questo post mantengo fede a una promessa fatta a Francesco Sylos Labini tempo fa. Inizia da una domanda: “A Wall Street lavorano più fisici o più economisti”? La risposta è controintuitiva per quelli la cui percezione della realtà è filtrata attraverso i para-orwelliani minuti di indignazione mediatica.

Le maggiori banche di Wall Street impiegano un battaglione di diverse migliaia di fisici, mentre gli economisti di mercato ammontano al massimo a qualche centinaio. Anche gli analisti di borsa, cioè gli esperti di finanza aziendale che emettono giudizi e raccomandazioni sui titoli azionari o sulle obbligazioni societarie sono in rapporto di almeno dieci a uno rispetto agli economisti.

Ma di cosa si occupano i fisici a Wall Street? In massima parte dei famigerati derivati. Come mai? Perché le formule con cui si calcolano (anzi con cui si credono di calcolare) i prezzi di opzioni e altri strumenti complessi si ottengono dalla soluzione di equazioni con cui i fisici hanno molta dimestichezza. Purtroppo questi fisici trattano le equazioni sui prezzi dei derivati come se fossero una descrizione accurata della realtà (al pari delle equazioni della termodinamica) senza rendersi conto di quali assunzioni ci siano dietro. Forti di queste loro dubbie certezze, producono numeri talora senza senso. Quando si verifica un disastro scrollano le spalle asserendo che i calcoli erano giusti.

Tuttavia ai piani alti dei grattacieli du Wall Street si preferisce ricorrere ai fisici non solo per le loro conoscenze scientifiche, ma spesso, inconsciamente, per motivi meno confessabili. Un Ph.D. in economia o in finanza sarebbe benissimo in grado di maneggiare quelle equazioni, ma agli occhi di chi deve piazzare prodotti strutturati, ha il difetto di pensare e di sapere cosa si nasconde dietro le formule. Quindi li prende con le molle, come mere ipotesi e non vi si affida ciecamente per gestire il rischio (tantomeno quello dei clienti).

In sintesi i derivati sono utili per alcuni scopi ben definiti, ma non sono sostituti per strategie di investimento che prescindano dall’analisi economica. I fisici questi problemi non se li pongono. Non sanno nulla di economia, di mercati, di finanza. Quale realtà ci sia dietro un tasso di cambio o un tasso di interesse è per loro argomento assolutamente alieno. Trovata la soluzione numerica di un’equazione differenziale parziale, il resto sparisce.

I venditori di derivati (settore dove le commissioni sono estremamente appetibili) puntano agli obiettivi stabiliti nei piani annuali per intascare i bonus, quindi hanno scarso entusiasmo per obiezioni e cacadubbi. Si trovano alle prese con gestori di fondi, assessorati di enti locali, direttori finanziari di grandi imprese, i quali non di rado per formazione professionale oscillano tra l’azzeccacarbugli e il contabile, il tributarista e il portaborse, il sindacalista ed il figlio di papà (Ligresti docet). Non pochi (soprattutto quelli di una certa età) non distinguerebbero una formula da un testo etrusco. Davanti ad un foglio Excel si sentono come in presenza di Hal 9000 in 2001: Odissea nello Spazio.

Non di rado diventano facile preda di strutture commerciali che li inducono a seppellire monete d’oro nel campo dei miracoli. Intendiamoci, non tutti sono delle stessa risma, ma quando qualcuno comincia ad adottare metodi disinvolti, c’è una probabilità non trascurabile che la pratica si estenda: i consigli di amministrazione, se per un paio di trimestri un concorrente mostra una performance migliore, premono per colmare il divario.

Per questo i desk di derivati si spazientiscono con gli economisti e assumono i fisici. I quants (come vengono chiamati affettuosamente) sono come i buoi in agricoltura. Tirano l’aratro placidamente e dissodano la dabbenaggine dove qualcun’altro seminerà per raccogliere messi copiose.

Sarebbe ingeneroso comunque attribuire le responsabilità per i derivati trasformatisi in titoli tossici solo ai quants. Ad esempio ci sono eserciti di avvocati a Wall Street che stilano i contratti. Molti sembrano credere che i derivati nascano in qualche oscuro laboratorio sotterraneo. Invece un derivato è un contratto fatto di clausole che definiscono gli obblighi reciproci delle parti, quindi li creano gli avvocati, non gli economisti. Poi ci sono i contabili che provvedono a nasconderli nelle pieghe di bilancio sfruttando le maglie larghe delle regolamentazioni approvate dai politici.

Ma nei minuti orwelliani si ignorano fisici, avvocati, contabili e venditori. Si dà però risalto alla Regina d’Inghilterra, la quale in un discorso alla LSE (London School of Economics) chiese come mai gli economisti non avessero previsto la crisi. Elisabetta II è una signora dalle impeccabili maniere e dai gusti sartoriali eccentrici, ma evidentemente dalle letture dubbie o dalla memoria labile. A un tiro di schioppo da Buckingham Palace c’è la redazione di un settimanale sulla cui testata si legge “Economist”. Questa pubblicazione aveva in più occasioni, sin dai primi anni del secolo, avvertito della bolla immobiliare, particolarmente grave proprio nel regno di Sua Maestà britannica. Presumibilmente la sovrana era troppo distratta da tabloid e patinati che dedicavano lenzuolate agli amorazzi del figlio, le mattane del nipote, le gaffe del marito e gli scandali a corte. Altrimenti avrebbe potuto chiedere al Primo Ministro e al Cancelliere dello Scacchiere (oppure al Governatore della Banca d’Inghilterra) se quanto scritto dall’Economist dovesse essere motivo di regal cruccio. Ma forse dall’ufficio stampa le avranno suggerito che far finta di cadere dal sovrano pero è una strategia comunicativa di sicura presa sui lettori di tabloid e patinati.

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