“E’ per lui, solo per lui, solo per quel bambino che ero anch’io una volta”. Luigi Bonaventura ha come un sussulto mentre guarda il primo dei due figli. Occhi intensi come il padre e una serenità inaspettata. Luigi non ha nessuna difficoltà nel ricordare chi era e chi è adesso: “Ero il reggente della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone, ero un affiliato di ‘ndrangheta, lo ero dalla nascita, da generazioni. Sei predestinato, ti fanno nascere per questo. Oggi questa catena l’ho rotta e mio figlio sarà libero, questo è il mio vero orgoglio oggi”. E’ un pentito, parola che usa senza nessun problema, anzi. Ha fatto arrestare “diverse decine” di affiliati da quando, nel 2005, ha iniziato a collaborare con la Dda. Tutte le sentenze che lo hanno riguardato non hanno avuto dubbi sulla sua attendibilità, facendo condannare perfino il padre e altri ‘ndranghetisti vicini, vicinissimi a lui. Bonaventura è stato anche sentito dai magistrati che indagano sulla Lega a Milano, Reggio Calabria e Napoli. Ora chiede al primo ministro Mario Monti protezione per la sua famiglia.
Sulla carta Luigi Bonaventura, che aveva parlato di una presunta trattativa tra Stato e ‘ndrangheta dopo la strage di Duisburg (15 agosto 2007), ha oggi una nuova identità e un indirizzo riservato. E’ la prassi: ti cambiano i dati anagrafici, ti mandano in una città nuova e lontana sotto copertura, ti aiutano a crearti una nuova vita. Ti proteggono. Questo dice la legge e questo dovrebbe avvenire. “Quando mi hanno portato in questa località teoricamente protetta – racconta Bonaventura a ilfattoquotidiano.it – ho però subito capito che c’era qualcosa che non funzionava, vendendo le carenze del sistema di protezione”. Il luogo scelto per la sua nuova vita, Termoli, è inserito in una mappa di cosche che Bonaventura definisce invisibili, nascoste, ma pronte ad essere attivate al momento più opportuno. A pochi chilometri, nella città di Campobasso, nel 2005 il neofascista Angelo Izzo uccise due donne legate ad un collaboratore della Sacra corona unita. E sempre a Campobasso, ricorda oggi Bonaventura, vi fu il primo tentativo di rapimento di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia poi uccisa e sciolta nell’acido qualche mese dopo a Milano. “Mi accorgo che c’era qualcosa di strano quando, alla fine del 2007 – racconta l’ex reggente di Crotone – vado a farmi un tatuaggio, e lì incontro Francesco Amodio. Lo avevo già conosciuto nel 1994 quando eravamo stati carcerati insieme e quindi è stato spontaneo salutarsi. Dopo poco mi invita ad uscire insieme, ad andare al night, mi spiega che qui a Termoli c’è una ’ndrangheta invisibile e che facevano riferimento direttamente alla mamma, ovvero al gruppo reggino dei De Stefano”.
Passano pochi mesi e, con uno stratagemma, viene contattato da Felice Ferrazzo, ex capo dell’omonima cosca di Mesoraca, in provincia di Crotone. Un passato da pentito finito poi nel luglio del 2011, quando è stato arrestato dai carabinieri perché collegato al più grande deposito di armi mai trovato a Termoli, a due passi dall’abitazione di “copertura” affidata dal servizio di protezione a Luigi Bonaventura. “Guarda queste immagini, guarda l’arsenale che gli hanno trovato”, commenta il collaboratore di giustizia mostrando i giornali che a tutta pagina annunciavano il ritrovamento. “E sai di chi era questo garage? – chiede Bonaventura con la voce che mostra tutta la sua preoccupazione – Di una parente di un funzionario di polizia”. Una notizia che trova riscontro nelle cronache della stampa locale, anche se nessun esponente delle forze dell’ordine risulta al momento indagato.
Gli approcci dei “falsi pentiti” sono solo il preludio di un incontro ben più pesante, che porta Luigi Bonaventura, che aveva denunciato la presunta infiltrazione dei ‘ndranghetisti nel servizio di protezione, a denunciare pubblicamente la situazione di pericolo per la sua famiglia nei mesi scorsi: “Nel luglio dello scorso anno mi contattano i De Stefano, mi fanno capire che mi trovano quando vogliono. Loro erano a conoscenza di tutto quello che avviene in quest’area”. Gli dicono apertamente, poco prima del ritrovamento dell’arsenale a Termoli, che i Ferrazzo lo vogliono morto, ma di stare tranquillo. Un modo per fargli capire di non avere più nessuna sicurezza. Arrivando all’appartamento di Bonaventura – dove vive con i due figli piccoli e la moglie – si scopre con un certo sconcerto che non esiste nessun controllo. “Quando vado a testimoniare in giro per l’Italia mi portano con la macchina blindata (anche se il 20 febbraio scorso denunciò di essere stato lasciato solo tra il pubblico durante un processo) – racconta – ma nessuno rimane a vigilare sulla mia famiglia, nessuno. Non avevo altra strada se non quella di rendere pubblica questa mia situazione”. La sua richiesta – rimasta a tutt’oggi lettera morta – in fondo è semplice: “Lo chiedo a Monti, visto che nessuno mi ha risposto fino ad ora: qualcuno deve proteggere me e la mia famiglia, dobbiamo avere una scorta e la possibilità di un nuovo contesto sociale, di un vero inserimento”. Per ora l’unica risposta agli appelli dei mesi scorsi è stato l’annuncio di un imminente trasferimento, visto che è stata scoperta la località segreta del suo domicilio. Il paradosso è che il servizio di protezione gli addebita la colpa: “Ha rilasciato interviste non autorizzate”. Non una parola su quella ‘ndrangheta invisibile denunciata da Bonaventura, su quegli strani pentiti pieni armi e sulla potentissima famiglia De Stefano che gli ha fatto sapere “ti troviamo quando vogliamo”.