“Le piscine sono tutte uguali”, sorrideva Michael Phelps in settimana durante un’intervista. Ma le cose non sono così semplici. “Ci sono le piscine e poi c’è l’Olympic Aquatics Centre“, risponde Ian Crockford, project manager della Olympic Delivery Authority. Ci sono le piste di atletica e c’è la superficie progettata dalla italiana Mondo per l’Olympic Stadium. Perché gli impianti sono protagonisti di Londra 2012. Nove record del mondo battuti nel nuoto, 10 nel ciclismo, l’apoteosi di Usain Bolt nei 100 e nei 200 metri piani, quando in pochi si aspettavano primati e spettacolo dopo l’exploit di Pechino 2008.
Non ci sono solo il talento, gli allenamenti, il materiale tecnico e, al limite, il doping: “Gli impianti hanno favorito questi risultati – ha raccontato al Wall Street Journal Gilbert Felli, direttore esecutivo del Cio per i Giochi Olimpici – lo scopo degli atleti è battere i record, quello degli organizzatori è aiutarli a farlo”. Ai Giochi del 2008 c’erano i costumi body-suit: aiutavano i nuotatori a tenersi a galla e scivolare nell’acqua come pesci, al punto che a Pechino i furono 25 i record mondiali ad andare in frantumi. Ora le tutine non ci sono più, sono vietate dal 2009. Così sono stati in molti a vaticinare che ci sarebbero voluti almeno 10 anni prima di vedere nuovi record. Invece a Londra è avvenuto il miracolo: 9 primati del mondo, la deificazione di Michael Phelps e migliaia di fan estasiati sugli spalti. Il miracolo l’ha fatto anche l’Aquatic Centre, disco volante con le ali disegnato da Zaha Hadid e costato 470 milioni di dollari. Questione di tecnica costruttiva e di ambiente. Tre 3 metri di profondità; due sistemi di circolazione dell’acqua, uno sul fondo e uno in superficie; ma soprattutto 10 corsie per 8 atleti e bordi bassi che impediscono alle onde di tornare indietro e permettono di nuotare su una superficie praticamente piatta. Ad aiutare anche 8.500 fan in delirio sistemati a bordo piscina. “Sentirli così vicini mi ha dato la spinta in più”, ha spiegato Rebecca Soni, oro e record mondiale nei 200 metri dorso.
“Tutti gli impianti sono stati pensati per facilitare gli atleti e dare spettacolo”, ha spiegato Crockford al WSJ. Il caso del Velodromo è eclatante: 10 i primati mondiali battuti, con i ciclisti inglesi andati a record in tutte e 6 le discipline in programma. A Londra lo chiamano “The Pringle”, come la patatina, per la forma del tetto. Sulla pista, lunga 250 metri come in passato, il traguardo è stato spostato 5 metri in avanti in modo da dare ai ciclisti la possibilità di prendere maggiore velocità in uscita di parabolica, lì dove lo sprint fisiologicamente diminuisce. Con lo stesso scopo le parti più ripide del circuito, quelle la cui angolazione raggiunge i 42°, sono più levigate che in passato. Determinante anche la temperatura, mantenuta 27.7° periodici con un complicato sistema di areazione e apertura porte che impediva alla drizzling air londinese di entrare. Usain Bolt forse avrebbe vinto comunque, ma su un’altra pista gli sarebbe risultato più difficile volare sui 100 metri in 9″63 e abbattere il record olimpico. Così come molto difficilmente 7 degli 8 atleti in gara il 5 agosto all’Olympic Stadium nei 100 metri avrebbero fatto segnare tempi inferiori ai 10 secondi. Qualcosa la leggenda vivente lo deve anche alla pista realizzata dalla Mondo: il tessuto lamellare di 8 mm sistemato sotto i 5 mm di gomma dello strato superficiale è in grado di assorbire gli shock del piede non solo anteriormente e posteriormente, ma anche di lato. Non solo: “La superficie è così ruvida – ha scritto l’olimpionico Edwin Moses sul Daily Telegraph – che garantisce un grip totale. Ci puoi correre anche se piove e vale almeno 5 decimi di secondo. Bolt non avrebbe potuto fare quei tempi su un impianto differente”. Persino la copertura dello stadio è stata progettata per ridurre il vento in pista. Un trionfo di tecnologia costruttiva anche la North Greenwich Arena. Gli impianti per la ginnastica, dai tappeti alle parallele, sono più elastici di quanto non fossero 10 anni fa: “Sono realizzati con una schiuma di ultima generazione, più morbida – ha spiegato al WSJ Steve Penny, numero uno della federazione Usa – è normale: agli atleti sono richieste capacità molto maggiori che in passato, e le strutture sono chiamate ad evolversi alla stessa maniera”.