E’ un partito repubblicano diviso e tormentato quello che si appresta ad aprire la Convention di Tampa, il 27 agosto, dove Mitt Romney verrà ufficialmente designato candidato alla presidenza. I sondaggi più accreditati – Cnn, Politico, Fox News e Reuters – danno Obama in netto vantaggio nelle preferenze di voto degli americani (il 5 agosto Fox News, il network di aperta fede repubblicana e conservatrice, assegnava ad Obama un vantaggio di addirittura nove punti). La scelta di Paul Ryan come candidato alla vicepresidenza non sembra poi aver dato quello slancio che la campagna di Romney sperava. Anzi. Sono sempre più, in giro per gli Stati Uniti, i candidati repubblicani alla Camera e al Senato che prendono le distanze dal conservatorismo troppo radicale di Ryan.

“L’entusiasmo è tutto dalla nostra parte”, spiega in una email ai giornalisti Andrea Saul, la portavoce di Ryan, aggiungendo che la nomina del deputato del Wisconsin costringerà i democratici a “discutere delle vere questioni e della politica fallimentare del presidente Obama”. La speranza del team di Romney è (o almeno era) quella di utilizzare i due mesi e mezzo da qui al voto, e i quattro dibattiti televisivi in programma, per spiegare agli americani il piano di Ryan di riduzione del deficit federale, focalizzando la campagna sull’economia e costringendo Obama e i democratici sulla difensiva per i cattivi risultati in tema di occupazione.

Le cose sono andate diversamente. Gran parte dell’attenzione di media e professionisti della politica è stato sino ad ora rivolto al piano di Ryan per cancellare il Medicare (l’assistenza sanitaria pubblica per i più anziani, i disabili e alcun categorie di malati cronici) e sostituirlo con voucher statali. Inaugurato nel 1965, il Medicare è oggi uno dei programmi federali più popolari, una sorta di pilastro sociale che può essere riformato (lo stesso Obama, con la sua riforma sanitaria, ha proposto tagli e aggiustamenti) ma che la maggioranza degli americani non vuole veder cancellato. Nel giro di poche ore dall’annuncio, è iniziata dunque la martellante campagna democratica che accusa Ryan di voler privare gli anziani dell’assistenza sanitaria e di pensare a tagli radicali della spesa per gli studenti, i veterani, la classe media (in un video prodotto dai democratici, il duo Romney-Ryan viene definito il “go back team”, il team che vorrebbe riportare gli Stati Uniti alle politiche fallimentari di George Bush, quelle che hanno favorito una minoranza di ricchi e impoverito la classe media).

A poco, in queste ore, sono serviti i tentativi di attenuare la portata della mannaia proposta da Ryan sulla spesa sociale (il candidato si è affrettato a specificare che la cancellazione del Medicare riguarderebbe soltanto chi ha meno di 55 anni; per i più anziani le cose resterebbero come sono oggi). I numeri per i repubblicani in Florida, uno Stato con una forte presenza di pensionati e che sino alla settimana scorsa pareva orientato a scegliere Romney, si sono fatti immediatamente più esigui e la campagna elettorale, che doveva essere un referendum sulla politica economica di Obama, si è trasformata in uno scontro tra due modelli alternativi di America, con il team di Romney chiamato a difendere una radicale ristrutturazione di quel che resta dello Stato sociale americano. Che questa ristrutturazione sia però poco gradita alla maggioranza degli americani risulta chiaro a molti tra gli stessi repubblicani, che in queste ore applaudono pubblicamente alla scelta di Ryan ma che in privato appaiono ben più sfumati e problematici. Uno dei pochi a dire davvero come la pensa, e a fotografare la situazione con un certo realismo, è stato Mark McKinnon, vecchio consigliere di George Bush, secondo cui “il ticket Romney-Ryan può far campagna sui principi e offrire una reale direzione e visione al partito repubblicano. E proprio per questo, probabilmente, perdere. E di molto”.

Una sconfitta di larga misura significherebbe però, per i repubblicani, non soltanto l’addio alla Casa Bianca per altri quattro anni. Significherebbe, soprattutto, l’addio alla maggioranza alla Camera e al Senato, e quindi alla possibilità di fare argine contro la politica di Barack Obama. Ecco dunque che, in queste ore, molti repubblicani impegnati in sfide difficili nei loro collegi cercano di prendere, sia pure elegantemente, le distanze dal conservatorismo per nulla “compassionevole” di Paul Ryan. Scott Brown, impegnato in Massachusetts in una battaglia all’ultimo voto contro Elizabeth Warren, ha per esempio salutato le “impressionanti doti intellettuali” di Ryan, ma ha anche ricordato di non condividere per nulla la sua proposta di revisione del Medicare. Stessa attitudine in un altro repubblicano in vista, il deputato del Michigan Justin Amash, che attraverso un suo portavoce ha ricordato di aver criticato più volte i tagli alla spesa proposti nel budget di Ryan. Come ha fatto anche Danny Rehberg, deputato del Montana, che in uno spot televisivo spiega che “la cancellazione del Medicare nuocerebbe a tanti tra i nostri anziani”.

La lista di politici repubblicani che da sabato ha preso le distanze da Ryan sarebbe ancora lunga (include anche il candidato a governatore del North Carolina, Pat McCrory) e segnala il disagio di una fetta importante del partito, le resistenze a essere trascinato su una piattaforma giudicata troppo radicalmente conservatrice, incapace di conquistare l’appoggio di classe media e indipendenti. Le differenti visioni, e il disagio, potrebbero venire a galla proprio in occasione della Convention di Tampa. Intanto gli unici che continuano a manifestare entusiasmo incondizionato per la scelta di Ryan sono i gruppi del Tea Party, la rete di miliardari conservatori come i fratelli Koch, Paul Singer, Cliff Asness, i teorici e militanti del Club for Growth e Americans for Prosperity, che prevedono di investire milioni nella campagna per battere Obama e costruire un’America libera da tasse e Stato.

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