Il ristorante che, per ora, non ha nessuna intenzione di aprire, lo chiamerebbe “Le trame domestiche”, sorta di incrocio tra l’erotismo intellettuale di Choderlos de Laclos e l’intimità degli intrighi casalinghi. Il libro che le hanno chiesto di scrivere, invece, non ha ancora un titolo ma un editore sì (non lo riveliamo perché temiamo la sua ira). Arianna Occhipinti è un tipetto particolare, ragazza intensa e solare, di una sua bellezza agricola (sia inteso come un complimento) e con una tenacia che un po’ intimorisce. Una che ti dice seriamente “Io non ho paura di niente”, ma poi scoppia a ridere. Tra una cena con Teo Musso, una visita di Jonathan Nossiter e una valanga di libri “che non ho più il tempo di leggere” (sul tavolo il siciliano analfabeta Vincenzo Rabito con il suo “Terra matta” e la “Mafia in tavola“), la giovane produttrice di vini naturali ci riceve nel suo splendido casale di Vittoria, nel Ragusano. Dentro è casa e ufficio, un antico e bellissimo palmento riadattato, vini naturali in bella vista (non solo i suoi, ci sono Princic, Foradori, Graci…) e carte di tutti i tipi. Fuori, un panorama di lunghi filari di viti ad alberello. Di fianco c’è la cantina, con i fusti di acciaio inox e le botti da 25 ettolitri di legno di rovere di Slavonia, sulle quali si arrampica come un gatto per andare a estrarre un po’ di vino da assaggiare. Oggi Arianna compie 30 anni di una vita vissuta intensamente e si prepara a festeggiare nuovi traguardi, tra un monito al lavorante tunisino Omar (“bisogna spianare lì: no pulito, splendente lo voglio”) e una carezza al labrador Paco (“si è graffiato perché sono andata in vacanza, quattro giorni a Budapest, si sentiva solo”).
Chi l’ha vista in Senza Trucco, il film di Giulia Graglia sulle quattro donne del vino naturale (con lei Nicoletta Bocca, Dora Forsoni e Elisabetta Foradori), si è fatto un’idea del personaggio. Un curioso intruglio di dolcezza e di forza, capace di rispondere a muso duro con un lungo commento a un post di Andrea Scanzi (“troppo preso da sé”) che sferzava a modo suo il raduno di vini naturali Triple A Velier, ma anche di riconoscergli delle qualità (“meglio uno come lui, coinvolgente e convincente, che gente senz’anima”). Una così metterebbe in ridicolo un eventuale remake nostrano del film di Ben Stiller “Giovani, precari e meridionali”. La novella Winona ha debuttato a 22 anni, con un po’ di fondi europei, l’appoggio dei genitori (architetto e insegnante) che hanno comprato la casa e un po’ di terreno (un ettaro) e l’esperienza di uno zio viticultore (Giusto Occhipinti, della nota azienda Cos).
All’inizio Arianna sconta la diffidenza degli “anziani”. Come quando viene apostrofata così da un contadino che le insegnava il mestiere: “Signorina, che ci fa lì ferma? Mica la dobbiamo fotografare…”. Il rischio che a tanta gioventù corrispondesse troppa irruenza c’era. Ma crescendo si cambia e ora che svolta la boa dei 30, Arianna è una giovane donna coraggiosa ma saggia, che ha imparato la virtù della temperanza ed è pronta anche a un’autocritica: “Sui vini naturali siamo stati troppo combattenti, abbiamo esagerato. All’inizio forse era giusto così, perché dovevamo farci sentire, dovevamo gridare al mondo che c’eravamo e facevamo una cosa bella, diversa. Ma ora basta, non mi sento più parte della battaglia. Ora è tempo di essere più concilianti, di rispettare le diverse posizioni”. Una riflessione razionale ma anche una questione personale: “C’è chi è ancora in guerra totale, io questo periodo l’ho superato. All’inizio dovevo sempre dimostrare qualcosa, combattevo e così nascondevo le mie insicurezze. Ora sono più tranquilla, ho trovato il mio equilibrio. Questa è la mia strada, il mio metodo. Ma mi piace condividere le cose con tante persone e ognuno ha la sua idea”.
Non che Arianna si sia pentita: “Il 95 per cento dei vini che mi piacciono è naturale e io faccio soprattutto agricoltura naturale”. Ma certe asprezze appartengono al passato: “Non sono più così aggressiva, ho capito che ognuno ha il suo punto di vista e va rispettato. Peraltro non tutti i vini naturali mi piacciono. Io guardo ai produttori e a quello che fanno. Il mio motto è: prima facciamo, poi ne parliamo. Prima mi fai bere quello che fai, lo provo, vedo se mi piace e cosa hai fatto e poi eventualmente ne discutiamo”. Di qui anche la scelta di non iscriversi a nessuna delle (troppe) associazioni di vini naturali: “Non faccio parte di nessun movimento, mi piacciono alcuni produttori e partecipo ai vari Cerea, Vivit e agli altri ritrovi, ma non mi piacciono le etichette“. Neanche sulle bottiglie? L’etichetta “vino naturale” la metterebbe, se si potesse? “No. Non mi interessa. Io non scrivo nulla sul mio vino. Ti deve piacere. Poi, se ti è piaciuto, magari ti informi e scopri com’è fatto”.
E’ fatto bene, aggiungiamo noi, con cura e rispetto della natura. Con pochissimi solfiti aggiunti: “Mai nella vinificazione, solo nella fase dell’imbottigliamento. Sono antiossidanti, servono per proteggere il vino. Non sono un’integralista antisolfiti ma ne uso pochissimi”. Per dire, il Frappato 2010 ne ha 20 mg/l, l’Sp68 sta a 60, mentre il massimo consentito è di 160. Altro elemento distintivo dei vini naturali, l’uso dei lieviti indigeni al posto di quelli selezionati (“uniformizzano il gusto”). E il (non) controllo della temperatura: “Faccio la fermentazione nelle vasche d’acciaio da 30 e 50 ettolitri e macerazioni lunghe. Cerco di mantenere la temperatura non controllata. Se la temperatura sale un po’ troppo, faccio passare dell’acqua fredda con delle piastre all’interno delle vasche. La temperatura controllata viene fatta per una vinificazione controllata: io che non uso lieviti selezionati, preferisco che l’uva viva diversi stadi di temperatura piuttosto che avere una fermentazione più veloce e meno interessante”.
Saggezza che non inganni, ché Arianna resta una combattente, factotum della sua azienda, che controlla dalla vigna alla cantina, fino al marketing. Partita con un ettaro, come zio Paperone con un cent, si è allargata, acquistando nuovi terreni e arrivando a 10 ettari di vigneti e 15 di uliveti: “Ho appena comprato altri otto ettari. Ma voi giornalisti pensate subito che allargarsi sia vendersi. Il nostro lavoro non è un gioco, con due ettari non campa nessuno, né io né le famiglie. Più ettari lavoro in organico più mi fa piacere. Un’azienda agricola deve avere una dimensione gestibile ma economicamente vantaggiosa, che ti mette nelle condizioni di produrre vino migliore”.
Arianna gira intorno alle sue viti ad alberello e le guarda con amore: “Sono una particolarità di Vittoria. Un metro e 25 per un metro e 25. Ci puoi lavorare intorno e il vento le raggiunge da ogni direzione, togliendo l’umidità”. Controlla l’invaiatura, il colore dell’uva. Assaggia un chicco di zibibbo, paradisiaco. Oscilla tra il dialetto siciliano (“Questo è ciaccatu e rifunnutu“) e il gergo tecnico: “Ho fatto tutto su selezione massale e non clonale. Cioè, invece di comprare dal vivaio e scegliere un unico clone, che ha un numero determinato perché selezionato da una tale università, quando ho piantato i vigneti ho messo il porta innesti americano, la vite americana che si usa in Europa, e poi ho innestato in campo la varietà scelta da me in altri vigneti, con una ricerca lunga e accurata. Non ho un unico clone, dunque, con la stessa forma di grappolo, la stessa acidità e lo stesso colore”. Arianna ama la complessità del vino, non insegue standard di acidità, produce vino vivo, esuberante e intenso come lei, e diverso ogni anno. C’è il rigore e l’armonia del Nero D’Avola e c’è la freschezza e l’eleganza del Frappato: “Più che vinificarlo in modo fresco e fruttato, beverino, il mio Frappato in purezza fa legno grande un anno e mezzo prima di uscire in commercio. Ha più tannini e una complessità più ampia”.
Quanto al Nero D’Avola ne fa uno in purezza, straordinario, che ha chiamato Siccagno: “Chissa è racina siccagna, signurì!” (questa è uva bella concentrata, signorina). Poi c’è il Terre Alte, Cerasuolo di Vittoria classico (blend di Frappato e Nero D’Avola), unico Docg: “Come ho detto, non mi piacciono le etichette e le regole sono troppo rigide. Poi credo che si debba usare il Docg solo per i vini migliori, i vini più importanti. Per questo, non lo faccio tutti gli anni. Io voglio lavorare sul territorio, che credo sia il migliore della Sicilia per queste uve e voglio farlo al di là delle etichette”. Prima di andarcene, Arianna si arrampica sulla botte di rovere e ci offre un ultimo assaggio: il Passo Nero, un passito vinificato in rosso non troppo dolce, appassito sui graticci di canna. Fuori c’è la sua contrada, Fossa di Lupo, ci sono i monti Iblei, e c’è il labrador Paco, tutto graffiato. L’ultimo libro che ha (ri)letto è “La scimmia nuda“, di Desmond Morris, che le consigliò il suo docente di marketing del vino, nel 2002. “Siamo come le scimmie”, mi dice. Vero, dico, ma intanto penso che siamo scimmie fortunatissime, a poter bere certi vini.