La giornalista danese Marie Korpe in una interessante inchiesta sulla censura musicale nel mondo (Sparate sul pianista! La censura musicale oggi, EDT, Torino 2007) spiega quanto sia difficile trovare un’epoca nella quale i censori non abbiano ostacolato la libertà dell’espressione artistica. Dal saggio che offre importanti spunti di riflessione sul rapporto tra potere politico e musica, emerge che la musica, in primis, spaventa e dà fastidio per le posizioni politiche scomode espresse dai musicisti e dai loro testi. Ma viene censurata anche perché testimonia l’esistenza di minoranze etniche che si vogliono ignorare; perché dà voce alle donne laddove le si vorrebbe escluse dalla sfera pubblica e perché fa incontrare gli individui sviluppando un senso d’identità collettiva.
In questo senso la musica risulta una minaccia, soprattutto per chi detiene il potere o vuole conservalo, lo testimoniano le diverse forme di censure attuate, oggi, nei suoi confronti; e non solo in paesi come l’Iran o l’Afghanistan (dove il regime dei talebani ha prodotto una delle espressioni più forti di censura musicale), ma anche in democrazie come la Francia e gli Stati Uniti, dove dopo l’11 settembre si è affermato un inasprimento dei controlli. Durante gli anni dell’ascesa e del suo consolidamento il fascismo ha esercitato un rigido controllo su tutti i mezzi di comunicazione di massa e sui fenomeni artistici. Tra gli artisti italiani censurati negli ultimi decenni spiccano, Renato Carosone, Luigi Tenco, Francesco Guccini, Fabrizio De André, Lucio Dalla, Gianna Nannini e tanti altri.
Si potrebbero citare centinaia di casi in tutto il mondo, per esempio in Francia il 14 novembre 1996 i due solisti della notissima formazione NTM (“Nique ta Mère”, ossia “fotti tua madre”) hanno subito una condanna a due mesi di carcere e l’interdizione dal suonare in pubblico per sei mesi. La decisione è stata presa dopo un violento attacco verbale dei cantanti nei confronti della polizia e del sistema giudiziario francese durante un concerto a Tolone, città allora governata dal Front National (FN), il partito di estrema destra di Jean-Marie Le Pen. Invece, il 7 gennaio dello scorso anno, fu arrestato il giovane rapper tunisino Hamado Bin Omar, alias “il Generale”. Il cantante è diventato famoso per aver inciso il brano “Presidente del paese, il tuo popolo muore” molto critico nei confronti dell’ex presidente Ben Ali. La canzone è divenuta la colonna sonora della rivolta dei disoccupati di Sidi Bouzid, che si è estesa in tutto il paese nord africano.
Oggi tocca alle Pussy Riot, diventate il simbolo del dissenso contro Putin, condannate a due anni di reclusione, per teppismo e incitamento all’odio religioso. Nonostante la condanna, Yekaterina Samutsevitch, Nadia Tolokonnikova e Maria Alyokhina, già ammanettate e pronte per essere trasportate in carcere, sorridono e salutano i sostenitori, perché, come Dario Fo, sanno che «mille anni fa come adesso, cantastorie e menestrelli, rocker e rapper, sono lì a cantare l’altra storia, quella che la gente vuol sentire e il palazzo vuol far sparire. Ma la musica vola. Inafferrabile e imprendibile. Come si fa a metter in gabbia una canzone? Come si può uccidere un ritmo, una ballata, uno stornello?»