Londra è, notoriamente, una capitale ricolma di ambasciate. Tanto ricolma che, probabilmente, ciascuno dei 192 paesi rappresentati nelle Nazioni Unite, ne vanta una nei dintorni di Whitehall, nel centro nobile della città. E del tutto presumibile è che, tra queste innumerevoli sedi diplomatiche, anche le più austere siano regolarmente attrezzate con almeno una “stanza per gli ospiti”. Che cosa, in tanta abbondanza, ha dunque spinto Julian Assange, il pallido eroe di Wikileaks in cerca d’asilo, proprio in direzione di quella dell’Ecuador? Molte cose. Cose buone e cose meno buone. Cose, perlopiù, maturate nel corso d’una recente ma molto intensa relazione personale tra Assange ed il presidente Rafael Correa. E tuttavia molto forzato – a dispetto delle apparenze e della logica – sarebbe annoverare tra queste molteplici cause un comune amore per la libertà d’informazione e di stampa. Perché? Perché Rafael Correa, in realtà, apertamente odia la stampa. La detesta, la disprezza e la vilipende con pressoché quotidiana frequenza, non di rado ricorrendo (subito imitato dai suoi seguaci nelle piazze) a pubbliche e spettacolari cerimonie di stracciatura di giornali. O meglio: perché a tal punto Rafael Correa detesta la stampa del suo paese (ed anche, sia pur in modo meno furente, la grande stampa internazionale), che non pochi sono ormai giunti alla conclusione che, dietro il furibondo rancore riservato a tutti i tradizionali organi di stampa ecuadoriani (El Universo di Guayaquil, El Comercio di Quito, Hoy ed altri), si celi, a conti fatti, quantomeno una certa antipatia per la libertà di stampa in quanto tale.

A Rafael Correa non mancano, ovviamente, le buone ragioni di risentimento. La stampa ecuadoriana è di certo, in senso lato, parte d’un potere oligarchico la cui relazione con la democrazia sempre è stato – per usare un eufemismo – decisamente labile. Ed altrettanto certo è che, una parte di questa stampa, sempre ha guardato con malcelata (ed interessata) antipatia alla “revolución ciudadana”, la rivoluzione cittadina che, alla fine del 2006, ha portato Correa alla presidenza. Correa e la sua “revolución” hanno avuto molti meriti. Primo fra tutti: quello d’aver ridato stabilità politica ad un paese che, devastato dalle politiche neoliberali di Sixto Durán (il conservatore che governò tra il ’92 ed il ’96), da quasi un decennio – praticamente dall’assai dubbio impeachment per “incapacità mentale” di Abdalá Bucaram, nel 1997 – era diventato di fatto ingovernabile. E poi quello d’avere riallacciato – con una politica economica espansiva, favorita dall’auge delle materie prime – il discorso sulla giustizia sociale lasciato in sospeso dalla sfortunata parentesi socialdemocratica di Rodrigo Borja Cevallos.

Correa ha, in questo processo, provato sulla sua pelle la spesso pregiudiziale ostilità dei media (che, peraltro, mai ha intaccato la sua popolarità). Ma a questa ostilità ha risposto con quella che ogni giorno di più assomiglia ad una deriva autoritaria, senza troppa discrezione mutuata da quella adottata, in Venezuela, dal presidente bolivariano Hugo Chávez. Correa, infatti, non solo ha creato (cosa almeno in parte legittima) un sistema d’informazione statale – agenzie di stampa, giornali, radio televisioni – da contrapporre ai media tradizionali, ma ha avviato una politica da molti (e con buone ragioni) definita intimidatoria nei confronti dei “nemici”. Ovvero: di chiunque, nel mondo dell’informazione, abbia palesato riserve sulla sua politica. Una strategia, questa, che ha visto, oltre alla chiusura “per ragioni amministrative” di molte stazioni radio, il passaggio di leggi restrittive che hanno, a loro volta, aperto la porta ad un massiccio (e molto politico) uso della querela. Punta d’iceberg di questo assalto all’arma bianca giudizial-politico fu, in tempi recenti, la “mega-condanna” (3 anni di carcere, 40 milioni di dollari di multa) inflitta al direttore di “El Universo”, per “ingiuria” nei confronti del presidente. Questa sentenza è poi stata, com’è noto, “perdonata” da Correa. Ma – come tutti hanno fatto notare – se la condanna è stata cancellata, l’intimidazione è rimasta.

Piccolo ma – alla luce del “caso Assange” – alquanto significavo dettaglio. Prima della sentenza, il direttore di “El Universo”, Emilio Palacio, si rifugiò nell’ambasciata di Panama chiedendo asilo politico. L’asilo gli venne concesso, ma Correa – così come oggi la perfida Albione con Assange – drasticamente si rifiutò di concedergli un lasciapassare…

Il più importante strumento dell’offensiva mediatica di Rafael Correa è, tuttavia, l’uso delle cosiddette “cadenas”. Vale a dire: l’occupazione simultanea di tutte le reti per messaggi del governo alla Nazione. Non più di un anno fa è giunta la notizia che il presidente ecuatoriano era, nell’anno 2011, riuscito nell’apparentemente impossibile impresa di superare, in questa pratica, il suo vicino di casa, Hugo Chávez. Duecentotrentare (233) ore di trasmissione (quasi dieci giorni filati), contro la media di 195 ore annuali fatta registrare dal presidente bolivariano nel primo decenniodella sua gestione. Una bella gara – questa delle “cadenas” – alla quale si è di recente associata, molto promettente terza, la “presidenta” argentina, Cristina Fernández de Krichner…

Rafael Correa e Julian Assange. Come vuole il proverbio, Dio li ha fatti e poi li ha accoppiati. Ma si tratta davvero d’una strana coppia…

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