Classe 1985, Ilaria Magliocchetti Lombi, è una delle protagoniste più interessanti nel panorama fotografico romano. Le sue opere riescono a descrivere al meglio la nuova scena musicale italiana. Nel suo portfolio vanta clienti del calibro di Afterhours, Dente, Zen Circus, Le luci della centrale elettrica. “Questo perenne bisogno di fotografare tutto e condividerlo, quasi sia l’unica prova tangibile di dimostrare che esistiamo, è davvero snervante. Siamo davvero bombardati, ma io non credo, a differenza di altri, che questo sia un male per la fotografia; si vedono talmente tante foto, che quando ce n’è una diversa si nota”, spiega Ilaria. Attraverso i suoi lavori, riesce a restituire la realtà di un mondo ancora non del tutto cristallizzato dall’opulenza delle major musicali, primo tassello della deflagrazione di un sistema economico-culturale ormai al tramonto.
Quando nasce questa passione?
Credo sia nata con l’adolescenza e con la voglia di immortalare gli amici e i momenti che vivevamo, e poi è cresciuta grazie ai tanti viaggi in cui mi hanno sempre coinvolto i miei genitori sin da bambina, per poi consolidarsi con la musica.
Si riesce ancora a vivere di fotografia?
E’ difficile, come tutto del resto, non credo che campare facendo altri mestieri sia più facile. Per la mia generazione avviare qualsiasi tipo di attività o professione è estremamente complicato, quindi tanto vale farsi in quattro per qualcosa che si ama particolarmente.
Quanto incide il fotoritocco nelle tue opere?
La post-produzione è parte del processo creativo, non è che scegli se farla o no: tutti la fanno se scattano in digitale. Chi è capace se la fa da solo altrimenti ci sono delle persone che trattano le immagini al loro posto. E’ errato pensare che post-produzione sia un sinonimo di taroccatura. Prima si sceglieva il tipo di rullo, i filtri, il tipo di carta ecc adesso una serie di scelte stilistiche riguardanti il trattamento delle immagini si opera successivamente allo scatto.
Grazie ai tuoi scatti stai cercando di costruire l’immaginario collettivo (per pochi eletti?) dei protagonisti della musica indipendente italiana. Per quanto riguarda la fotografia si potrebbe parlare anche di un “movimento indie”?
Se intendi strettamente legato alla musica direi di no, se invece parli in senso più ampio credo di sì. Ho delle difficoltà con il concetto di indie, ma se non parliamo di musica e intendi fotografi meno noti o commerciali che fanno progetti interessanti autofinanziandosi ce ne sono tantissimi, e anche di molto bravi: solo che forse non li troverai su Facebook.
Qual è stato finora il lavoro di cui ti senti più soddisfatta?
Fortunatamente è quasi sempre l’ultimo lavoro che ho fatto, perché sono ancora in una fase di apprendimento e di formazione. Mi sento più sicura su certi aspetti magari più tecnici o di controllo della situazione e quindi sono più libera di concentrarmi su altre cose. Sono soddisfatta degli scatti che ho fatto per gli Afterhours, andando un po’ più indietro ci sono un paio di ritratti di Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica, ndr) che credo siano abbastanza speciali.
Cosa pensi della massificazione “social” della fotografia?
Credo che sia positivo che tutti abbiano la possibilità di fotografare, prima era un privilegio per pochi, il digitale ha abbassato tantissimo i costi. Trovo meno positivo che tutti si sentano fotografi e si propongano come tali senza avere un minimo di percorso alle spalle, di ricerca, di umiltà.
Credo che siamo tutti un po’ stanchi di vedere quelle tre quattro immagini standard da social network ripetute all’inverosimile.
Siamo in una fase particolare, sta cambiando tutto e credo si debbano ripensare tante cose anche nel mondo della fotografia, è un momento di passaggio.
Quale foto avresti voluto scattare?
Forse i primi ritratti di Patti Smith (realizzati dallo statunitense Robert Mapplethorpe, ndr), perché era un momento incredibilmente denso.