Politica

Taranto inquinata dai giudici?

Stupisce e imbarazza che i migliori talenti politici si siano misurati, nessuno escluso, con la frase: “Non tocca certo ai giudici stabilire la politica industriale di un Paese”. La frase è triste, ovvia e inutile. Perché i giudici possono (devono) intervenire in qualsiasi caso, scuola, ospedale, fabbrica o caserma, se vi è un reato. Per esempio a Taranto, dove si fabbrica un ottimo acciaio ma la città muore di tumori. Ecco, in quest’ultimo caso abbiamo sentito tutti coloro che meritano un minuto o un secondo di telegiornale o una fotina stampa, dire e ripetere una frase priva di senso, “non saranno certo i giudici a decidere la politica industriale italiana”.

Perché priva di senso? Ma perché si riferivano al giudice Patrizia Todisco che aveva deciso di confermare il sequestro di un immenso centro industriale, detto “acciaieria”, che ha prodotto e produce da decenni acciaio e inquinamento, due prodotti diversi ma, purtroppo altrettanto di buona qualità, uno per vivere e l’altro per morire. A questo punto della storia si è formato, come i lettori ricorderanno, un grumo di equivoci su cui purtroppo anche i media hanno dato il loro contributo, pur di non smentire la confusione dei politici e anche dei governanti tecnici. Abbiamo assistito a due colate di lava mediatico-politica. Da un lato, la città contro la fabbrica (o il contrario), mostrando madri di famiglia angosciate che pulivano una polvere nera dal lavandino e dai piatti di casa davanti alla telecamera, senza dirci che che quelle madri di famiglia angosciate erano le mogli di operai al lavoro all’Ilva, persone decise a non perdere né il lavoro, né i bambini. Dall’altra, la giudice screanzata che, profittando del margine di svergognata impunità ingiustamente incassata dai magistrati con la presunta ricerca di verità nella trattativa tra Stato e mafia, ha osato mettere sotto sequestro il centro avvelenato della città di Taranto.

E qui veniamo al punto, allo stesso tempo stupefacente e ovvio: “Il potere giudiziario ha invaso lo spazio del governo, decide sulla nostra economia e chiude una fabbrica fondamentale per il Paese”. Nessuno sembra essersi domandato se, quando un giudice arresta un medico, non stia invadendo il campo della medicina o decidendo la politica della sanità. L’intera questione della malasanità, che ha sconvolta la presunta e totale autorità dei medici, si basa su una “invasione di campo”. Proprio in questi giorni, magistrati americani si stanno occupando del Libor, ovvero degli accordi, fra grandi e potenti banche, nel farsi a vicenda buone condizioni di scambio dei capitali di cui sono custodi e di cui approfittano.
Dunque è clamorosamente semplice la vicenda di Taranto che sembra avere scosso le radici dello Stato. Un giudice ha visto un reato, ne ha in mano le prove, e ha deciso di intervenire. Primo, impedire che il reato si ripeta e si moltiplichi. Ovvio che fermare l’Ilva è un problema complicato e gravissimo, oltre che carico di pesantissime conseguenze sociali. Ma, per esempio, nessuno si è accorto dei vasti giacimenti (vasti come mezza città) di residui della cokeria, veri e propri ammassi di rifiuti tossici abbandonati all’aperto, polveri portate dovunque dal vento, adesso, mentre noi parliamo, dieci anni fa, mentre si celebrava la straordinaria qualità degli impianti, venti anni fa, fra inaugurazioni e benedizioni. Arrivare indignati dal Ministero per dire “fermi tutti, tocca a noi. Siamo noi che decidiamo i destini dell’economia, e dunque di questo impianto, e non la magistratura” è una affermazione imbarazzante.

La legge non c’è, ma c’è il giudice, l’evidenza, le cause, le conseguenze, le vittime. E la Costituzione. Solo un sindacalista, Landini, che viene di solito presentato come un agitatore professionale, ha visto e ha detto subito che dare la colpa al giudice non serve a difendere una produzione, e dunque un lavoro inquinato e inquinante. Quando si scopre che un corridore è dopato, il problema non è scegliere fra la salute del corridore e quella dello sport, e chiamare in causa il prestigio del Paese colpito dalla squalifica. Prima di tutto, si squalifica. Quanto all’Ilva, restano ansietà e tensione sul modo di fare pulizia, di conservare il lavoro, di rispettare i giudici. Più difficile è il destino di una classe dirigente, politica o tecnica che, nel momento del pericolo, ha scelto subito di combattere non il pericolo ma chi il pericolo lo stava denunciando.

Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2012